Chiariamo subito un punto: viva le donne e viva tutto ciò che, politicamente, promuove e consente al genere femminile di esprimersi nel mondo in tutta la sua pienezza e potenzialità. Avanti tutte le politiche che mirano ad eliminare le ingiustificate disparità di trattamento nei confronti delle donne, in ogni ambito. Ma c’è un ma. La rivalità tra le donne, oggi più di ieri, è aumentata. Non solo la rivalità, (e non si sta parlando di quella sana e proficua competizione che consentiva anche l’emersione dei talenti e delle capacità individuali), ma la cattiveria, l’invidia, la gelosia. Forse quando tra donne occorreva tenersi per mano e correre sotto le bombe per portare il pane ai partigiani, o quando tra ancelle ci si aiutava per eliminare le “conseguenze” degli appetiti sessuali dei re che spesso esondavano oltre le stanze delle regine c’era qualcosa che non veniva chiamato femminismo, né sorellanza, né lotta di genere, non si conoscevano neppure queste parole, ma era qualcosa di più forte e consentiva l’unione e la forza come oggi sembra non accadere più e non essere più possibile. L’ultimo episodio, a metà strada tra il trash e il cabarettistico, di sceneggiata di piazza in stile nazionalpopolare che ci suggerisce quanto i tempi oggi siano cambiati da quando esisteva quel forte spirito di solidarietà femminile è quanto accaduto tra Francesca Pascale e Daniela Santanchè, una schermaglia a suon di borse di Hermès taroccate commentata a più riprese da varie testate giornalistiche e rivelata da Selvaggia Lucarelli (pare che la Santanché regalò tali borse nel 2014 alla Pascale, al tempo compagna di Silvio Berlusconi, quando la “pitonessa” ambiva al ruolo di coordinatrice di forza Italia, stando a quanto riportato da Dagospia). Il femminismo moderno, che di “ismo” ha tutto, ma di “femminile” ha veramente poco, avrebbe dovuto significare maggiore sorellanza, solidarietà, maggior sodalizio nella comunità delle donne di tutto il mondo. E invece no.
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Niente di tutto questo sta accadendo. Le donne sono, a onore del vero, più inferocite che mai e più desiderose di omologarsi e di giudicarsi, nelle scelte, nei valori, nei modi di pensare, protese nella disperata e strenua rincorsa per aderire ad un canone estetico orripilante che le fa sembrare tutte simili a dei Muppets. Ma su questo potremmo anche sorvolare. Quel che fa realmente piangere è che mentre ci si scanna, nelle università, nelle aule del Parlamento, nei reality shows, nelle piazze, sui social, per affermare la “giustezza” dell’uso delle desinenze, mentre si dibatte sino alla nausea sulla schwa - se si, o se no – o sulla galanteria dell’uomo che è da condannare a morte o sul sessismo del maschio che fa un fischio di troppo alla ragazza che passa per strada, il femminismo “moderno”, da quello intersezionale a quello ambientale, da quello anarchico fino a quello culturale, somiglia sempre più ad un ombrello mezzo scassato sotto cui si stipano variamente sempre più donne, che tutto fanno tranne che prendersi realmente per mano. La violenza diviene invece sempre più giustificata. Le manifestazioni di piazza sotto le bandiere dei (pur validissimi) battaglioni delle “nonunadimeno”, o del movimento “me too”, non sono che dei grossi raduni per sgolarsi e dar visibilità alla propria patente di appartenenza a questo o a quell’altro collettivo, che si vaporizzano nell’arco di una giornata senza lasciare traccia. Nulla contro i collettivi, se non fossero specchietti per le allodole e se portassero realmente a risultati: disegni di legge, direttive che cambiano nelle scuole, politiche che cambiano nelle aziende, e molto altro. Solidarietà femminile, dove sei finita? Forse nello sport ancora resiste. Chissà. Il principio di uguaglianza, sarebbe bene ricordarlo ogni tanto, nella lettura che ne dava un illustre costituzionalista, si deve leggere correttamente: non “a tutti lo stesso”, ma “a ciascuno il suo”.
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Sarebbe più bello il mondo se le donne si pensassero così e si stimassero a vicenda partendo dalla dolcezza della comprensione, e dalla tenerezza dell’accoglienza dell’altra, come dell’altro, guardata/o nella sua unica e irripetibile unicità. A ciascuna il suo destino, la sua strada nel mondo, la sua femminilità, la sua maternità o non maternità, a ciascuna il suo corpo, le sue gambe, le sue labbra, a ciascuna la sua carriera o la scelta di non farla, a ciascuna la scelta di amare anche l’uomo da cui ama essere dominata, venerata, o mantenuta. Che bello sarebbe se la conquista di sé stesse non dovesse passare prima attraverso la demolizione della scelta di un’altra, o di tutte le altre. Ne resta traccia nell’arte, forse, di quella estrema forma di sorellanza, come spesso avviene, nell’arte che lateralmente e sotterraneamente continua a regalare barlumi di magia e speranze per una intera generazione a venire, di donne, ma non solo. Un esempio straordinario di quanto si sta dicendo è stato lo spettacolo diretto dalla regista italo-colombiana Vittoria Rizzardi Peñalosa, andato in scena a Roma dopo il debutto a Londra, lo scorso giovedì 20 febbraio, nello studio del pittore Alberto di Fabio, opera a metà strada tra la performance e la danza contemporanea, dal titolo “Hairfuck” (parola che gioca volutamente con il termine “Mindfuck”). Tante donne legate insieme da una lunga treccia si tenevano per mano e si dimenavano in preda agli spasmi, sotto gli occhi rapiti degli astanti, inseguendo illusoriamente, senza mai raggiungere, una donna “regina”, o “sopravvissuta” ricoperta di sangue che correva su un tapis roulant. Alla fine, la donna insanguinata scendeva dalla sua passerella, o dal suo destino di privilegio, per uscire di scena in silenzio tenendo per mano tutte le altre che erano state meno fortunate di lei. E il sangue si mescolava al bianco della purezza, della verginità, della giovinezza. Il sangue di tante donne prima di lei, morte ammazzate, ma anche il sangue della storia, e del presente, che oggi invita le donne a proclamarsi ad ogni costo femministe, ma le rende incapaci di essere sorelle. E in questo, prima di tutto, incapaci di essere realmente donne.
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