Ci sono quattro diversi piani di lettura delle parole di Marcello De Angelis sulla strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna. Il primo è civile: la settimana scorsa, in occasione della commemorazione di quel fatto sanguinoso che lasciò dietro di sé 85 morti e 500 feriti, la coscienza collettiva del Paese ha visto un’altra volta messa in discussione la verità accertata dai tribunali, che parla di attentato ordito da neofascisti su mandato della Loggia P2 di Licio Gelli, con la complicità di ufficiali dei servizi, come si dice, “deviati”. Significa che il vissuto comune degli italiani non è affatto comune, cioè universalmente condiviso, nemmeno nei lutti più atroci, e ciò, ancora e sempre, sulla dorsale ideologica che rimanda alla funeraria contrapposizione fascismo/antifascismo. De Angelis è un ex Terza Posizione, movimento di quell’area eversiva di estrema destra di cui facevano anche parte anche i Nar, organizzazione a cui appartenevano Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini, dai giudici ritenuti responsabili della mattanza assieme a Paolo Bellini (Avanguardia Nazionale). De Angelis è stato, fra le varie, direttore del Secolo d’Italia, quotidiano storico di Msi e An, la cui fiamma arde nel simbolo del partito di Giorgia Meloni, e adesso è responsabile della comunicazione istituzionale della Regione Lazio. Non è uno qualsiasi: proviene da quella schiera di uomini di una destra, allora fuori dall’arco costituzionale, che oggi opera nello Stato, nelle amministrazioni ed è al governo. Rappresenta un passato con cui tocca fare i conti, eccome. Che ci piaccia, oppure – come più avanti diremo – no.
Il secondo piano è storico. Storiograficamente, ogni accadimento può essere discusso e ridiscusso all’infinito, come testimoniano le intere biblioteche in continua auto-alimentazione su qualsivoglia tema e argomento, dagli antichi Romani alle vicende più recenti. Ma il valore di quel che ha scritto il 3 agosto sui social De Angelis, additando le “massime autorità dello Stato”, cioè il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il presidente del Senato Ignazio La Russa, per aver “conculcato” la “verità” e la “giustizia” confermando la versione accettata su Bologna, è al massimo di testimonianza personale, di chi ha scontato una pena per banda armata, è fratello di Nazareno, detto Nanni, morto a Rebibbia in circostanze non del tutto chiarite nell’ottobre del 1980, ed è cognato di Luigi Ciavardini. Dal punto di vista di uno storico, quindi, la sua parola ha un peso relativo. Non che possa non averlo, ma non è senz’altro, come non lo è stato finora, decisivo. Diverso sarebbe se alla parola egli aggiungesse prove irrefutabili. Ma così non è. Ecco, diciamo che uno studioso di domani registrerà il commento di De Angelis come uno dei non pochi esempi per cui, nell’Anno del Signore 2023, le passioni estreme che hanno dilaniato l’Italia per tutta la Prima Repubblica hanno seguitato a condizionare il pubblico dibattito anche nella Seconda e oltre, rinfocolando alla rovescia l’accusa di “depistaggi” e accendendo lo scontro fino a far sostenere all’ex terzaposizionista, in un suo secondo intervento il 6 agosto, di rischiare il “rogo” come “Giordano Bruno”. Paragone che a noi sembra francamente eccessivo, visto che il pericolo che corre De Angelis è di dover dimettersi dal suo posto in Regione, per aver messo in gravissimo imbarazzo il presidente del Lazio, Francesco Rocca. Consapevole sin dall’inizio com’era, il De Angelis, di aver esposto la testa alla tagliola. Ma tant’è: il grado di accaloramento è questo, e anche di ciò va tenuto il debito conto.
Il terzo piano è giudiziario. Luigi Ciavardini è attualmente a processo per falsa testimonianza assieme a Vincenzo Vinciguerra, ex Ordine Nuovo ed ex Avanguardia Nazionale, con l’accusa di reticenze e dichiarazioni depistanti in uno dei vari processi che a grappolo hanno riguardato la strage, nello specifico quello che ha condannato all’ergastolo Gilberto Cavallini, altro ex Nar. Ciavardini, come abbiamo ricordato, è cognato di De Angelis. È fattuale che, da parte di quest’ultimo, l’aver contestato la tesi definitivamente avvalorata dalla magistratura possa sia avvenuto in concomitanza con il procedimento a carico del parente. Ora, a parte i suddetti imputati, è un fatto altrettanto oggettivo che il soggetto, o meglio i soggetti, che in tutta questa faccenda hanno il sacrosanto diritto a non avere pace finché l’ultimo lembo di verità non sia stata verificato e tombalizzato, siano i familiari delle vittime innocenti di quel maledetto 2 agosto di quarantatré anni fa. Nel marzo di quest’anno, partito il processo, Paolo Bolognesi, che dei familiari delle vittime è il portavoce presiedendone l’associazione, è stato durissimo: “In passato Ciavardini ha detto di essere l'86esima vittima della strage e questa è una presa in giro clamorosa. Dietro la strage c'era ben altro che i Nar e Terza Posizione, c'è stato un potere politico che ha permesso queste schifezze”. E ha aggiunto che la principale ipotesi alternativa alla matrice neofascista, la famosa “pista palestinese”, scartata dalle toghe e dalla maggior parte della storiografia, è “un depistaggio istituzionale fatto volutamente”.
Il quarto e ultimo piano, che qui ci interessa di più, è politico. Ed essendo politico, riunisce in sé tutti gli altri ma, per così dire, li supera. Osservando con questa lente, i fatti rilevanti sono i seguenti. De Angelis ha sferrato il suo attacco avendo come vero bersaglio chi aderisce a “versioni di comodo quando invece di conoscere la verità”. Ora, anche se concedendo l’esistenza residua di qualche “ombra” e “interrogativo ancora aperto”, a sancire con il crisma delle istituzioni la “matrice neofascista” è stato l’altro giorno Ignazio La Russa, che a differenza di Mattarella viene dal Movimento Sociale Italiano. La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, invece, ha parlato di “terrorismo” senza aggettivazioni, confermando la scelta strategica di starsene quanto più possibile alla larga da polemiche da cui ha solo da perdere. Il tutto significa che esiste una porzione della destra italiana che non ci sta, alla “normalizzazione” a cui stanno lavorando i suoi capi, e probabilmente confluirà in qualche imminente “destra sociale” di nuovo conio, in preparazione da parte di Gianni Alemanno e camerati. Una novità che sull’immediato, alle europee in cui si vota con il proporzionale, potrà pure suscitare qualche fastidio a Fratelli d’Italia (per poi magari a sua volta mettersi a cuccia, perché con il 5-10%, cifra ottimistica, puoi anche rovinare qualche festa, ma non puoi scalzare il predominio dell’egemone partito della Meloni). Com’era ovvio, tutte le opposizioni si sono avventate come un sol uomo sulla maggioranza pretendendo le dimissioni di De Angelis, il quale ha creato una bella grana a Rocca e anche, naturalmente, alla Meloni. Ora, mentre il 40% degli italiani non va in ferie per l’impoverimento diffuso che divora i risparmi, mentre 400 mila di loro non hanno più sussistenza dopo il taglio del reddito di cittadinanza, mentre la benzina è a 2 euro a causa della speculazione (come di consueto, di madre ignota), quando è sempre in corso una guerra in Ucraina che foraggiamo a maggior gloria della Nato, e dopo che a luglio si è toccato il record di sbarchi di migranti degli ultimi sette anni, ci si infervora sull’opinione di Marcello De Angelis a proposito di avvenimenti di più di quarant’anni fa che, repetita iuvant, pur importantissimi, dovrebbero essere materia per magistrati e storici.
I giornali, anche qui prevedibilmente e noiosamente, si sono divisi per schieramento e fazione, secondo il solito copione: da un lato quelli di sinistra, a intonare il refrain della contiguità del governo di destra con la destra estremista, dall’altro quelli di destra, che rigettano i j’accuse al mittente oppure minimizzano. Il guaio è che la minimizzazione arriva anche a mettere semi-visibili, taglio basso tattico, notizie che invece, queste sì, sarebbero da primo piano (come ha fatto Libero, che oggi, nella non proprio urgentissima pagina 9, dava in fondo quella del suicidio di Luca Ruffino, primo azionista della società editoriale Visibilia al centro del noto caso che ha investita in pieno la ministra Daniela Santanché, affrettandosi, per buona misura, a ipotizzare “gravi problemi di salute”). Alle somme. Se hanno una loro valenza, e ce l’hanno, tutti e quattro i profili che abbiamo elencato, noi, da cittadini che hanno a cuore quel bene prioritario che è l’interesse pubblico prevalente, per definizione coincidente con la vita reale, di oggi, e non di ieri o dell’altro ieri, non possiamo non dirci stufi di vedere impantanarsi l’agenda su un passato che non passa mai. Le vittime della strage di Bologna hanno avuto giustizia, e se non ancora totalmente, è giusto che i parenti la facciano venire a galla e rispettare nelle sedi dovute. Ma per il resto, i loro nomi non possono e non dovrebbero essere usati per regolamenti di conti o guerricciole intestine alla destra, né per il gioco strumentale di un centrosinistra che a ogni affiorar di nero la butta, in mancanza di più forti argomenti, sullo spauracchio fascista. Quanto a De Angelis, visto che si considera già con un piede sulla pira, potrebbe fare il martire fino in fondo: si dimettesse, a questo punto, anche se niente lo obbliga a farlo. Farebbe sì contente la Meloni e le minoranze, ma pure il Giordano Bruno che è in lui. Il libero pensiero, che egli ha manifestato come è diritto di ciascuno, può avere il suo prezzo. Specialmente nell’eventualità che si sia addetti a comunicare quello, necessariamente meno libero, di un presidente di Regione.