Che si debba – o almeno si possa – avere fiducia in questo governo è chiaro. Esattamente come è chiaro cosa questo governo non sia stato in grado di fare. In due anni non basta dichiararsi conservatori per esserlo (e essere conservatori oggi non può voler dire essere populisti, come durante la campagna elettorale). Tuttavia una cosa si può dire chiaramente: non siamo di fronte a un governo fascista. L’atlantismo di Meloni non è una maschera, ma la conseguenza di un processo di istituzionalizzazione, di cui ha parlato ampiamente sui giornali Marco Tarchi a proposito della possibilità di “ammansire” il Rassemblement National di Marine Le Pen. E proprio Marco Tarchi, ex dirigente missino, politologo, direttore della più controversa rivista di destra degli anni Settanta/Ottanta, La voce della fogna (odiata sia da molti fascisti conservatori che, chiaramente, dall’antifascismo militante). Altri autori hanno anticipato queste conclusioni. Su tutti Salvatore Vassallo e Rinaldo Vignati in Fratelli di Giorgia (Il Mulino). Qualche citazione per chiarire: “L’accostamento al fascismo che spesso nel confronto politico e nelle narrazioni dei media politicamente schierati viene suggerito dagli avversari di Fdi è parte di quelle iperboli strumentali di cui si nutre la propaganda”. Poi: “Il governo Meloni potrà commettere errori, tentare forzature dettate da una lettura superficiale dei vincoli costituzionali, prendere posizioni che le opposizioni troveranno del tutto errate, non condivisibili. Ma per emanare norme palesemente incostituzionali dovrebbe ottenere la complicità del presidente della Repubblica, il quale avrebbe l’obbligo di non controfirmarle”. Infine: “A chi si domanda ‘quanto fascismo c’è oggi in Fdi?’ suggeriamo di distinguere tra fascisti, neofascisti, postfascisti e afascisti. La prima generazione di fondatori del Msi era formata da fascisti (da persone che avevano avuto un ruolo, piccolo o grande, nel regime, e soprattutto nella sua ultima incarnazione, la Rsi) e da neofascisti (che coltivano la speranza e il progetto di ricostituire il fascismo e di resuscitarne i cardini ideologici, che manifestano aperta simpatia per regimi autoritari di destra, che non sono alieni, in molti casi, da tentazioni golpiste e mantengono ampie zone di sovrapposizione con ambienti eversivi). Con la svolta di An, la generazione capeggiata da Fini compie il passaggio dal neofascismo (via via ridotto, a partire dagli anni Ottanta, a puro nostalgismo testimoniale) al postfascismo: afferma cioè la piena integrazione nel sistema democratico, prende le distanze, pubblicamente, dal regime fascista, continuando a coltivarne, privatamente, una memoria e un giudizio positivi. La generazione di Giorgia Meloni è piuttosto definibile come formata da democratici afascisti: il processo di integrazione democratico è proseguito e il fascismo ha smesso completamente di esercitare una funzione di ispirazione”.
Giorgia Meloni era, è e continuerà a essere vicina alla destra sociale?
Dovremmo ora leggere le parole di chi, dall’interno, ha saputo criticare, studiare e analizzare le tre età della fiamma. È questo il titolo del dialogo tra Tarchi e Antonio Carioti, uscito per Solferino quest’anno. Chi vuole capire, dopo due anni, la natura di Fratelli d’Italia, può passare da questo libro. È un modo di sfatare miti e leggende ma soprattutto di fare chiarezza nel dibattito che ha visto la sinistra trincerarsi dietro parole d’ordine spesso fraintese. Meloni sarebbe a un tempo conservatrice, liberista, fascista, destra sociale, figlia dell’Msi e figlia di Fini e Alleanza Nazionale (e quindi della svolta afascista di Fiuggi). Sarebbe tutto questo, insieme, poco importa che un liberista e un fascista non possano convivere nella mente di una persona, salvo casi di schizofrenia politica o trasformismo (quest’ultimo, però, per definizione confuta l’idea che Meloni possa essere genuinamente fascista). Giorgia Meloni era, è e continuerà a essere vicina alla destra sociale? “C’è comunque un altro aspetto interessante da mettere in evidenza, nel processo di formazione politico-culturale di Giorgia Meloni. Il suo approdo alla microcorrente dei Gabbiani – che è attiva esclusivamente nell’organizzazione giovanile, senza velleità di incidenza sulla politica «adulta» del partito – non segue, contrariamente a quanto si sostiene in qualche ricostruzione biografica ostile all’interessata, un’adesione alle posizioni della destra sociale, con cui anzi avrà sempre un rapporto conflittuale, anche se mai spinto all’inimicizia personale. Meloni non ha mai accarezzato simpatie anticapitaliste, ha sempre visto con favore una figura come quella di Margaret Thatcher. Anche per questo motivo può apparire adeguata a rappresentare una formazione politica che non ha ancora perso completamente la speranza di fare da incubatore o traino di un Pdl postberlusconiano”.
Cosa significa la fiamma nel simbolo? Si torna al fascismo?
“Il senso di questa riappropriazione è evidente. Per dirla con il Tolkien tanto amato da Giorgia Meloni, è il segno che «le radici profonde non gelano», che la storia di cui Alleanza nazionale è stata un tassello importante non è stata interrotta dalla decisione di sciogliere il partito nell’eterogeneo contenitore pidiellino (che del resto Meloni, pur sostenendo a posteriori di esserne rimasta sorpresa, aveva condiviso e perfino giustificato), ma prosegue sotto un’altra forma, più consona alla situazione attuale. Ma non si tratta di una rottura con il progetto unitario del centrodestra guidato in quel momento da Forza Italia, che toglierebbe a Fdi ogni orizzonte strategico praticabile, bensì dell’affermazione di una propria specifica identità all’interno della coalizione: appunto quella vocazione che An aveva proclamato al suo sorgere e si era sforzata di perseguire almeno fino all’insuccesso della lista dell’Elefantino alle elezioni europee del 1999. Dietro questa mossa c’è probabilmente anche la speranza di recuperare i consensi degli elettori di An che, di fronte al poco decoroso tramonto della leadership di Berlusconi, si sono rifugiati nell’astensione o hanno votato per una Lega che, con le vistose correzioni di rotta volute da Matteo Salvini fin dal momento della successione a Roberto Maroni, appare loro molto meno lontana di Forza Italia nei contenuti e nell’azione”.
Ora che è al governo, Giorgia Meloni ha un problema di classe dirigente?
Come spiega Tarchi non bisogna generalizzare. “Non generalizzerei. Il problema esiste, ma prendere per esempio un caso così sconcertante potrebbe portare a conclusioni sbagliate. Fratelli d’Italia ha assorbito una parte, seppur limitata, dei quadri intermedi di Alleanza nazionale, che avevano già un’esperienza politica consolidata. A questi si sono aggiunti gli esponenti della cosiddetta generazione Atreju, il cui limite è di essere cresciuti in un contesto in cui ci si occupava più di scelte ideali che di problemi pratici, per poi approdare a un partito che faceva dell’opposizione ai governi la sua arma principale, con tutto ciò che ne consegue in termini di abitudini a una certa radicalità nei toni. Il passaggio a ruoli esecutivi è stato troppo rapido e brusco per favorire un adeguamento immediato ai nuovi compiti, ma non bisogna trascurare il fatto che vari esponenti del partito occupano già da alcuni anni incarichi amministrativi di rilievo, a partire dalle presidenze di Regione. Per quella via si impara, e mi sembra che già una parte del ceto parlamentare di Fdi sappia interpretare il suo ruolo in modo corretto. Le eccezioni ci sono e ci saranno, ma non sono un’esclusiva del «terzo partito della Fiamma»: basti pensare alle polemiche insorte nell’ultimo decennio attorno a dichiarazioni “o comportamenti poco ortodossi di deputati, senatori e ministri del M5S, o ai non pochi casi di coinvolgimento di esponenti del Pd in indagini della magistratura. E cosa dire della vicenda Soumahoro, che ha macchiato l’immagine di Verdi e sinistra radicale?” Certo, Meloni ha comunque fatto una mossa giusta scegliendo di allargare anche a esponenti di una destra non missina l’esperienza di governo. “I ministeri per Roccella e Nordio, la presidenza della commissione senatoriale per gli Affari esteri e comunitari per Tremonti, il ruolo ufficioso di consigliere di Pera indicano la volontà di coinvolgere i nuovi entrati in una dinamica di allargamento progressivo del partito agli apporti esterni, in una prospettiva conservatrice”.
A chi manca davvero il fascismo, alla destra o alla sinistra?
Tarchi riassume anche il giudizio tecnico sul presunto fascismo di Giorgia Meloni (che, come sottolineato già da Vassallo e Vignati, è istituzionalmente inesistente). Mostrando come sia la sinistra, in realtà, a provare mancanza per il fascismo, tanto che l’opposizione – anche tra gli intellettuali – si divide in due: chi parla di una nuova ondata nera (Scurati, Saviano e così via) e chi invece si sta concentrando nell’analisi e parallela condanna della nuova “destra afascista” (il caso più autorevole e virtuoso, per quanto criticabile, è quello di Nadia Urbinati in Democrazia afascista). “Caratterizzandosi in questo modo, Fratelli d’Italia ha vinto le resistenze psicologiche dei molti elettori che, pur considerandosi di destra, esitavano a scegliere le liste di un partito che molti commentatori continuavano a bollare come estremista o radicale, e ha completato la metamorfosi della corrente politica che gli aveva fatto da brodo di coltura. Se infatti il Msi è stato l’espressione del neofascismo e An ha voluto incarnare un postfascismo, Fratelli d’Italia – come hanno ben colto Vassallo e Vignati nel loro libro – è passato alla fase dell’afascismo, dell’estraneazione da un fenomeno storico la cui influenza postuma è ormai confinata in nicchie microscopiche della politica italiana. Cento anni dopo la Marcia su Roma delle camicie nere, ha dato una dolce morte all’ideologia che aveva alimentato le radici dei due precedenti «partiti della Fiamma». Ha, insomma, liquidato l’equivoca lunga convivenza fra le due anime missine: quella law and order e quella fedele al sogno di una ‘terza via’. Ed è passato a incarnare, praticamente senza concorrenza, la destra italiana”. Al contrario, “la sinistra, anche quella più moderata, ha fatto di tutto, da trent’anni a questa parte, per legare a sé, sempre più strettamente, il richiamo all’antifascismo, fin quasi ad appropriarsene in forma monopolistica: nelle occasioni ufficiali lo celebra come un patrimonio di tutti gli italiani e si indigna se qualcuno lo mette in dubbio, ma nella prassi quotidiana lo rivendica, ricollegandosi alla lotta armata partigiana, come se fosse l’unica forza politica ad averne raccolto il lascito. Il che oggi è molto vicino al vero”.