Quarantuno Stati hanno citato in giudizio la società di Mark Zuckerberg, Meta, accusando Facebook e Instagram di creare dipendenza e di essere, quindi, un pericolo per i bambini. Per la prima volta nella storia così tanti Paesi si uniscono per portare a processo una delle aziende più importanti del mondo, leader nel settore virtuale. Qualcosa che porta a interrogarci sulla natura del metaverso e su quanto ancora ci sia da capire, siano in termini di benefici che di rischi. Sono passati poco più di venti anni quando si è cominciato a parlare di Second Life. Almeno tra gli smanettoni, i nerd, quelli che non si perderebbero una novità informatica e digitale per nulla al mondo. Ne sono passati dieci, invece, dal picco di successo, quando cioè a parlarne non erano più solo i grandi appassionati, ma gli utenti comuni, i media generalisti, un po’ tutti quelli che si muovono nella contemporaneità senza rimanere troppo indietro. Dieci anni, oggi, sono una specie di era geologica. Dieci anni fa, per dire, la televisione sottostava ai palinsesti e la musica guardava a iTunes come al solo futuro possibile per combattere la pirateria. Second Life, per chi allora non c’era o si occupava d’altro, era un mondo virtuale lanciato online dalla Linden Lab e ideato dal suo fondatore Philip Rosedale, un mondo virtuale dentro il quale ci si muove impersonati da degli avatar, e dove si ricrea una società, e anche una urbanistica e geografia, alternativa. Qualcosa di non troppo diverso dal Metaverso, verrebbe da pensare, specie se non si è mai stati in entrambi questi “luoghi”, seppur Second Life sia visivamente molto più vicino ai videogiochi che negli Anni Ottanta spuntavano come funghi in giro per il mondo occidentale e non, le famose Sala Giochi a ospitarle, mentre il Metaverso appare come qualcosa di assai più futuribile, proiezione esplosa di Tron, sempre per rimanere a quel decennio lì. Nei fatti, era già capitato al termine cyberspazio, termine coniato da William Gibson nel suo Neuromante, e volendo anche un po’ a buona parte di quello che la rete ci ha presentato davanti nel corso degli ultimi anni, il termine Metaverso è nato dalla fertile mente di uno scrittore cyberpunk, seppur considerato anomalo anche dagli stessi appassionati di genere, Neal Stephenson, che nel 1992 pubblica il romanzo Snow Crash dentro il quale si parla di questa realtà virtuale alla quale si può accedere con una certa semplicità indossando dei visori ottici, entrando quindi in un mondo immersivo, un avatar, sempre lui, a incarnare una nostra versione 2.0. Ovviamente, avere una nuova “piazza”, seppur virtuale, o forse proprio perché virtuale, quindi ammantata di quella contemporaneità cui un tempo guardavamo ingenuamente come in un altrove che non includesse necessariamente il Pianeta Terra, i viaggi spaziali, gli altri pianeti, certe stramberie che sempre dalla fantascienza erano passate, e che invece sulla Terra è saldamente rimasta, ma spostata in un altrove digitale, ha fatto sì che Second Life, prima, evidentemente troppo prima rispetto ai tempi, e il Metaverso ora, siano stati oggetto di grande attenzione dei mercati e anche del mondo della cultura e dello spettacolo. Così se le aziende, per un po’, hanno provato a spostare lì in parte, in minima parte, le proprie attività, creando eventi e mercati settoriali, è successo che anche l’arte, con tutte le virgolette del caso, si affacciasse a questi mondi, ipotizzando nuove soluzioni e, perché no, anche nuove strategie promozionali. Il 3 agosto 2006, infatti, la cantautrice americana Suzanne Vega si è esibita in un concerto su Second Life, impersonata ovviamente dal suo avatar, esperienza replicata per la prima volta in Italia di lì a poco, il 14 dicembre, un concerto sold-out, ci tennero a far sapere gli organizzatori, dal cantautore Luca Nesti, di cui, come Second Life, nel tempo si sono perse le tracce, ma su Second Life sono stati girati film, tenute presentazioni e girati videclip, per l’Italia Bruci la città di Irene Grandi e la metanarrativa Second life delle sempre avantissimo Paola e Chiara. Il primo esperimento di Suzanne Vega, va detto, era in contemporanea con un concerto reale, tenuto in una radio, ma presto ci sarebbero stati eventi creati ad hoc per Second Life e solo su Second Life visibili e ascoltabili, vivibili verrebbe da dire, gestiti da operatori che lì operavano, promossi e divulgati da uffici stampa virtuali eccetera eccetera. Punto apicale, se vogliamo cristallizzare il tutto, il concerto degli U2 il 29 marzo 2008, loro che oggi animano il futuribile scenario di The Sphere in quel di Las Vegas. Del resto, visto che di mondo altro si trattava, presto anche la politica sarebbe atterrata da quelle parti, per noi italiani il primo politico a tenere un comizio su Second Life sarebbe stato, e la cosa non manca di far sorridere visto il personaggio non esattamente associabili alla futuribilità, Antonino Di Pietro, il 12 lulgio 2007.
Far coincidere la prematura dipartita, in realtà dopo un momento di appannamento, Second Life è stato a suo modo rilanciato, ancora presente da qualche parte, del primo mondo virtuale alla portata di tutti, con l’arrivo sul pianeta Terra dei social, il boom di Facebook è suppergiù del 2008, quindi quando ancora Second Life esisteva, l’apice lo toccherà nel 2013, ma è evidente che l’affiancamento dei tanti luoghi virtuali alternativi, da Snapchat a Twitter, oggi X, e Instagram, via via fino a Tik Tok, parlo di quelli decisamente più pop, ha avuto un suo peso indubbio, anche perché nessuno, o almeno nessuno dotato di senso della contemporaneità parlerebbe oggi di mondi virtuali o rapporti virtuali parlando di quelli che avvengono sui social, non più di quanto non fossero virtuali quelli che si tenevano in passato col telefono, per dire, strumenti di uso quotidiano come lo sono le mail, Messenger, Telegram o Whatsapp, anzi, destinati sicuramente a sostituirli (parlate oggi di mandare un fax con un Gen Z e vi guarderà come se stesse parlando di fare la prova del Carbonio 14 su un qualche osso di Mammuth trovato in cortile. Di fatto i social, anche loro, erano già stati anticipati nei romanzi di fantascienza, già negli anni Cinquanta Frederick Pohl guardava a un mondo distopico nel quale a governare tutto erano i mercati, penso proprio a I mercanti dello spazio, del 1952, dove gli uomini sono costretti a esibire i propri “acquisti” per guadagnare status sociale, finendo incastrati in un meccanismo di schiavitù liberalizzata, e senza rimanere troppo ancorati ai libri, si pensi a certe intuizioni di Black Mirror per capire come a volte chi lavora con la fantasia applicata alla narrazione ha delle visioni molto concrete e ancorate al reale. Suggerire come anche l’avvento dell’Intelligenza Artificiale fosse stata predetta è dire l’ovvio, Asimov e Philip K. Dick ci hanno regalato sguardi su questo da punti di vista completamente diversi, come anche è successo sui cambiamenti climatici, l’idea di un pianeta Terra abbandonato perché ormai invivibile è alla base di un numero incredibile di romanzi che poi si spostano su navicelle spaziali e altri pianeti. Arrivando verso l’oggi, sempre che l’oggi sia facilmente decifrabile mentre ci troviamo a viverlo, è tra il 2008 e il 2009, dopo il crack finanziario, che Satoshi Nakamoto, pseudonimo di una persona o un gruppo di persone, non è dato saperlo con certezza, crea il Bitcoin, quella che è a tutt’oggi la prima e più rilevante criptovaluta. Il fatto che nessuno conosca la reale identità di Nakamoto, converrete, ci proietta immediatamente dentro la trama di un romanzo di William Gibson, che non a caso si è inventato la figura dell’hacker, e quindi del web e quindi anche del dark web, assai prima che i tempi fossero compiuti. Il o la Bitcoin è una moneta virtuale crittografica peer-to-peer, e così si chiama anche il software che ne permette la circolazione, in assenza di intermediari e tramite algoritmi. Una borsa, quindi, taglio con la scure, che non passi dalla Borsa. Per questo nell’ambito del mondo dei blockchain, che delle criptovalute era in qualche modo il registro ufficiale, database network che si aggiorna in automatico, coi singoli utenti che possono lavorare solo sulla propria singola unità, impossibilitati a manomettere il complesso, lì, in pratica, dove si registravano tutte le transazioni, passo dopo passo, Blockchain letteralmente sta per catena di blocchi, nasce l’NFT, acronimo per Not Fungible Token. È il 3 maggio 2014, siamo al New Museum di New York e a presentarlo al mondo, nell’ambito della conferenza Seven on Seven, sono i suoi due creatori, Anil Dash, imprenditore, e Kevin McCoy, artista. I Token, valuta alla base del mondo delle criptovalute, con un preciso valore digitale, sono le monete virtuali di questo ambito, come dei gettoni. Not Fungible Token significa, letteralmente, Token non copiabile. L’opera presentata da McCoy, che ne è autore, si intitola Quantum, e ufficialmente è il primo esempio di criptoarte, arte digitale, certo, ma appunto non copiabile. L’NFT, infatti, ha questa funzione, certificare ogni singolo passaggio delle opere, di vario genere, che rappresenta, garantendone l’unicità e la proprietà, il tutto attraverso degli algoritmi scritti in specifici linguaggi di programmazione, che possano essere associati ad un qualsiasi prodotto digitale al fine di mostrarne la provenienza, l’autore, l’attuale proprietario e tutti i proprietari precedenti, rendendo così sicuro e trasparente lo scambio di opere d’arte digitali.
Quantum è quindi la prima opera di cryptoart, grazie agli NFT. Ma è Cryptopunks, immessa nelle blockchain da Ethereum nel 2017, la prima opera, per così dire, mainstream, di successo. Autori sono Matt Hall e John Watkinson, sviluppatori software per la Larva Labs. Se Second Life, quindi, aveva traslato in quel luogo virtuale l’idea di performance, seppur grossolanamente, l’NFT sposta nel Metaverso la creatività e le opere, aprendo un nuovo mercato. Mercato che ovviamente attira subito l’attenzione di chi ha le finanze, ma anche di crea. Al confronto dell’arte virtuale, quindi riscontrabile solo leggendo i passaggi di una catena di blocchi, l’idea di artisti virtuali come quelle pensate da Gibson in Aidoru, anno del Signore 1996, Rei Toei il nome dell’artista virtuale del romanzo, sembra davvero una sciocchezzuola, questo nonostante in Giappone, poi, artisti virtuali ne siano “nati” parecchi, alcuni, penso a Hatsune Miku, la più famosa, lanciata nel 2007 dalla Crypton Future Media, un vocaloid con il corpo olografico di una ragazzina di sedici anni, i capelli lunghi e verdi, più volte in vetta alla classifica di vendita nipponica, impiegata anche in opere liriche e recentemente al centro di una polemica in Italia, nel momento in cui è uscita una sua interpretazione di Nero a metà di Pino Daniele, titolo dell’opera Miku a metà, uscita nel 2021. Il Vocaloid, che è un sintetizzatore software ideato nel 2004 da Kenmochi Hideki, che poi è divenuto un Vocaloid Anime con Miku, non è da confondere con gli ologrammi, pattern d’onda interferenti ottenute tramite il laser, in pratica figure tridimensionali in realtà frutto di un effetto fotografico, nati già a metà degli anni Quaranta grazie agli studi dello scienziato ungherese Dennis Gabor. È grazie, o per colpa, degli ologrammi che negli anni abbiamo potuto vedere, e ancora possiamo vedere e ascoltare, artisti ormai deceduti andare in giro a tenere concerti, penso a Whitney Houston o Michael Jackson, anche se l’ologramma è stato usato anche dal coreano Psy, quello di Gangnam Style, per uno spettacolo residente in stile Las Vegas tenutosi a partire dal 2013 a Seul. Tornando però al passato prossimo, di colpo in molti cominciano a guardare agli NFT come al mercato più interessante, quindi ecco opere anche in ambito musicale dedicate ai blockchain, penso a certe intuizioni di Achille Lauro o Morgan, qui da noi, a mettere in vendita loro composizioni inedite, pensate per l’occasione. Certo, nel frattemo Christie’s ha battuto all’asta l’opera NFT di Beeple, al secolo Mike Winkelmann, Everydays: the First 5000 Days per la cifra monstre di sessantanove milioni di dollari, proiettando il medesimo non solo nel gotha dei criptoartisti, ma del mondo dell’arte contemporanea tout-court, siamo il 16 marzo del 2021. In seguito altre opere supereranno quella cifra, indicando il mondo NFT come un mondo impazzito, per molti una bolla, The Merge di Pak ha superato i novantuno milioni di dollari. Sul fronte musicale internazionale, a partire dall’album NFT Yourself dei King’s of Leon, versione virtuale del lavoro When You See Yourself, arricchito da oltre venticinque opere visuali e con in più l’opitional di entrare in possesso di un Golden Token, diritto a vita di poter assistere ai loro concerti in prima fila, tanti altri artisti si sono prodigati in varia maniera, da Snoop Dogg che ha piazzato per quattrocentocinquantamila dollari un appezzamento di terreno nello SnoopVerse, luogo virtuale esistente solo nel Metaverso, a Paul McCartney, in realtà entrato in questo mondo in maniera coatta, avendo Julian Lennon, figlio di John, venduto per settantaseimila dollari degli appunti scritti di suo pugno da Paul per il testo di Hey Jude, passando per tanti altri, dagli White Stripes a Ozzy Osburne, passando per Mick Jagger e The Weeknd. Le bolle, però, si sa, sono destinate a una fine scritta, scoppiare. Così nel 2022, di pari passo con la storia dei Bitcoin, si passa da un giro d’affari di circa diciassette miliardi di dollari, a gennaio, a neanche cinquecentomila a dicembre, con un crollo del 97%. Una vera strage che ne sancisce in qualche modo la fine, o quantomeno un ridimensionamento che non si pensa possa prevedere un’inversione di rotta.
Anche perché nel mentre c’è stata l’esplosione, almeno a livello di comunicazione, del Metaverso. Titolare, o maggior contributor di questa esplosione Mark Zuckerberg, ideatore di Facebook e poi titolare anche di Instagram e Whatsapp, che nel 2021 ha cambiato il nome della sua azienda in Meta, andando a profilare per altro uno scenario molto somigliante a quello che era stato Second Life circa venti anni prima, il video di lui che stringe la mano al suo avatar in tutto e per tutto evoluzione cool di quelli del fu Second Life a certificare il tutto, gli NFT sono un ricordo del passato remoto. Ecco quindi la nascita di spazi appositamente dedicati alla musica, in Italia nasce Music City, e prima ancora ecco i concerti nel Metaverso, nati durante i periodi di lock down dovuti al Covid19, nel 2020, grazie alla tecnologia Motion Capture, avatar virtuali di cantanti reali si sono esibiti di fronte a platee altrimenti irraggiungibili, si pensi ai trentatré milioni che su Roblox hanno seguito il concerto di Lil’ Nas, per dire, un vero fenomeno in espansione, sia su altre piattaforme nate nel mondo videogame, come Fortnite, sia in piattaforme che in genere si occupano di decentralizzazione, penso a Decentraland. Un fenomeno talmente in espansione da aver spinto MTV a istituire un premio ad hoc per i proprio VMA, quello per il miglior concerto nel Metaverso, appunto, andato nel 2022 alle Blackpink, band femminile di K-Pop, perché i fenomeni alla moda vanno spesso a braccetto. Viviamo però in tempi iperveloci, iperconnessi, frammentari e nebulizzati, tutto dura il tempo di un click, forse anche meno. Così, registrando un tracollo senza precedenti, per lui, di Meta di Zuckerberg e in contemporanea la chiusura da parte di Microsoft non solo di AltSpaceVR, spazio virtuale creato nel 2017 e da loro acquisito, ma anche di tutto il comparto aziendale dedicato allo sviluppo di contenuti per il metaverso, scelta condivisa anche da Tinder, in qualche modo dando chiare indicazioni di uno stato di salute piuttosto precario di una realtà, virtuale e reale al tempo stesso, in realtà ancora ai primi vagiti. Non proprio di morte, certo, ma quantomeno di agonia ci si sente un po’ tutti autorizzati a parlare, anche perché, zac, ecco che nel mentre sulla scena ha fatto irruzione un nuovo protagonista, o una nuova protagonista, vah, l’AI, Intelligenza Artificiale, trainata da applicazioni quali ChatGPT e da realtà quali OpenAI. Abbiamo tutti, più o meno, sorriso guardando il video di un live di Sfera Ebbasta, ricordiamolo sempre, artista italiano più certificato di sempre, recordman assoluto di Dischi di Platino e D’Oro, quando di colpo si è trovato a cantare senza il supporto dell’autotune, lasciandosi ascoltare al naturale, stonato come una campana. Abbiamo tutti, più o meno riso, ma poi ci siamo detti che la musica d’oggi funziona così, l’autotune aiuta certo a cantare chi in natura non saprebbe farlo, ma la trap, volendo anche certo pop, non pretende voci intonate, anzi, l’autotune è parte integrante del pacchetto, come di chi volesse fare l’heavy metal senza ricorrere ai distorsori o a altri effetti della chitarra. Non una scorciatoia, quindi, quanto piuttosto una scelta stilistica, discutibile o meno che sia.
Certo, poi ci siamo emozionati ascoltando cantare Mick Jagger, ottant’anni suonati, letteralmente, ma è roba d’altri tempi, come rimpiangere quando si andava in calesse, ora che il futuro è in balia delle auto elettriche. Poi però succede che uno degli artisti che più a sbancato su Tik Tok, che poi è il futuro prossimo del mercato musicale e discografico, in parte anche il rpesente, tale Ghostwriter, abbia provato a concorrere ai Grammy Awards con la sua conclamata hit, conclamata nonostante l’ostracismo che le ha rivolto il mondo dello streaming, Spotify in testa, Heart on My Sleeve, e si sia sentito dire che no, non può partecipare, non nella versione che appunto utilizza filtri vocali. Nello specifico, di qui il suo estremo successo, Ghostwriter non ha presentato Heart on My Sleeve come una semplice canzone, sicuramente non come una sua canzone. È apparso su Tik Tok, non a caso indicata da tutti come il futuro della discografia, in realtà in parte già come il suo presente, con questa canzone interpretata dalla viva voce di Drake e The Weeknd, la penna di entrambi chiaramente riconoscibile nelle strofe e nel ritornello. Tutto falso, come può essere falsa un’opera d’arte, perché quelle voci, e anche quella scrittura, era frutto di un saggio e artistico utilizzo da parte di Ghostwriter della famigerata e ormai onnipresente AI, a riprodurre vocalmente quegli artisti, dopo averli emulati nel modo di comporre. Come l’AI stia entrando a gamba tesa sulla realtà è sotto gli occhi di tutti, solo volendo rimanere nell’alveo della musica leggera, tanto per circoscrivere il circoscrivibile, si pensi alla battaglia che Spotify, azienda leader nel mondo dello streaming, sta facendo alle aziende che utilizzano le AI per scrivere e incidere canzoni, inscenando una battaglia fantascientifica tra algoritmi e intelligenze artificiali, Heart on my Sleeve, prodotta da Ghostwriter grazie all’AI e che è stata presentata al mondo intero come una collaborazione tra Drake e The Weeknd, due campioni di vendite nell’epoca attuale, è solo uno degli esempi più pop. Esperimento che ha fatto il botto su Tik Tok, decine di milioni di views, e che ha fatto da traino sulle piattaforme di streaming, Spotify in testa, almeno finché, roba di poche ore, l’azienda di Daniel Ek e a ruota tutte le altre, non hanno provveduto a rimuovere la canzone, considerata in qualche modo “illegale”. Lo stesso, roba più recente, è accaduto quando il medesimo Ghostwriter è tornato sulle scene con Whiplash, stavolta usando le voci prodotte dall’AI di 21 Savage e Travis Scott, altri due blockbuster. Che Ghostwriter sia ancora sconosciuto ai più, si dice sia in realtà un cantante piuttosto noto sulle scene, ma vallo a sapere con certezza, non fa che aumentare l’hype intorno a questo anomalo progetto, anomalo poi neanche tanto. Perché i filtri vocali del DeepFake usati con sapienza da Ghostwritere, funzionano esattamente come in altri casi si utilizza l’Autotune, o il Vocoder, o il Melodyne, si parte da una voce umana e poi la si filtra, distorce, rielabora. O almeno questa è l’ipotesi profilata da Ghostwriter nel momento in cui ha chiesto alla Record Academy che organizza i Grammy Awards di poter candidare la Heart on my Sleeve come miglior brano rap e migliore canzone in assoluto dell’anno, ipotesi che però è stata rigettata dall’organizzazione del premio per incompatibilità coi regolamenti.
Heart on my Sleeve potrà partecipare solo nella versione senza l’aiuto dell’AI, parliamo di interpretazione, dando per buono che un autore può quindi farsi aiutare dall’AI nella composizione e scrittura, anche se pure la questione dell’interpretazione è opinabile, perché sarebbe un po’ come se si chiedesse a Bad Bunny o a Nicky Minaj, per fare due nomi, di togliere il famigerato filtro-intonatore per antonomasia dai loro brani per poter prendere parte alla gara. Partita tutta da giocare, quindi, e se solo nel 2022 le Blackpink hanno vinto l’MTV VMA per la Best Metaverse Performance, categoria già scomparsa l’anno successivo, chi può mai escludere che ai Grammy Awards non compaia una categoria ad hoc per l’AI? Esperimenti del genere erano già stati provati, con un po’ meno hype e indubbiamente con meno numeri a supporto, e altri ne arriveranno, non solo per mano del medesimo Ghostwriter. Altroché i duetti coi “morti” cui ci eravamo abituati in passato, qui siamo nel campo dell’impensabile e dell’impensato, con tutto quello che ne consegue, scenari visionari inclusi. L’utilizzo di queste nuove tecnologie, del resto, è al momento fuori dal perimetro della giurisprudenza, e forse anche dell’etica, però sarà sicuramente centrale prossimamente, non può essere altrimenti, così come a suo tempo, per rimanere nel mondo della musica, lo è stata la questione dei sample nelle basi della musica rap, dapprima portata avanti con spavalda anarchia dagli artisti, e dopo il noto caso dei De La Soul, ai tempi di 3 Feet High and Rising, del 1989, portati in tribunale dai The Turtles, con l’accusa di aver usato un sample della loro You Showed Me nel brano Trasmitting Live From Mars, con solo settantasei dei duecento samples contenuti nell’album con una liberatoria da parte degli aventi diritto, causa divenuta argomento giurisprudenziale e quindi in qualche modo codificata anche dalla condanna del trio newyorkese, da quel momento le leggi sul copyright sarebbero state decisamente più severe e precise. Del resto stiamo tutti attendendo di ascoltare Now and Then, brano rimasto fin qui inedito e incompiuto dei Beatles, rifinito e inciso grazie all’utilizzo dell’AI, che ha “imparato” lo stile di John Lennon e ha fatto il lavoro che il nostro, morto nel 1980 per mano di Mark Chapman, non ha potuto fare. Il futuro è indubbiamente un luogo che non mancherà di riservarci molte sorprese. Tocca solo capire se gradevoli o orrorifiche. Chiudo citando Jovanotti, e so che andare a pescare una frase di colui che al momento è fermo per essere caduto non mentre volteggiava a gravità zero dentro una navicella spaziale, ma mentre andava in bicicletta suona quantomeno bizzarro, tant’è, alla domanda reiterata a profusione nel testo della sua canzone Megamix, contenuto nell’album Ora, anno del Signore 2011, “È questa la vita che sognavo da bambino?”, la risposta è ovviamente no. Per quanto i sogni siano spesso sprovvisti apparentemente di logica, anche quelli che poi diciamo come premonitori si muovono su binari che conosciamo, e nessuno di noi da bambino poteva immaginarsi Second Life, il Metaverso e la velocità con cui ce li saremmo levati dalle scatole, pronti a far posto alla prossima trovata geniale di qualche nerd.