A Taranto l’emergenza ambientale ha smesso di essere un'emergenza da tempo. Perché non si può parlare di emergenza in una terra in cui, lo Stato, ha scelto di siglare il proprio patto col diavolo. Un patto basato sullo scambio. Da una parte i forni che tutto bruciano dell’Ilva; dall'altro, il miraggio di una centralità industriale europea – mai veramente capitalizzata – in ambito siderurgico. Il mesotelioma pleurico in cambio del lavoro. Ma non è stata solo l’Ilva a consumare Taranto: oltre al gigante che, imponendosi anche visivamente sulla città, ne ha offuscato la bellezza derivante da una posizione unica – a cavallo tra il Mar Piccolo e il Mar Grande – c’è anche la raffineria dell’Eni e i suoi milioni di barili lavorati ogni anno. A questo si aggiunge la complessa realtà dei reflui e delle sostanze nocive scaricate nel Mar Grande dalla Marina Militare, un altro colosso che da decenni grava sull’equilibrio fragile del territorio. Per ragioni il più delle volte politiche, è stata soprattutto l'Ilva a monopolizzare il dibattito su passato, presente e il futuro della città. Ma guardando più in là c’è qualcosa che va indagato. Perché da un po’ di anni Taranto si sta trasformando in una città al servizio dei rifiuti e di chi li gestisce; proprio attorno ai proventi della "monnezza" sta crescendo un potere economico influente. È questo, l’ennesimo patto col diavolo che qualcuno ha stretto per Taranto, sorvolando i bisogni dei tarantini.

Taranto è una città in cui uno dei business più redditizi è rappresentato dalle discariche: ci sono gli inceneritori di Massafra, comune stretto tra le Murge tarantine e lo Ionio, dove i cumuli di rifiuti negli ultimi anni hanno anche oscurato il cielo per chi passa lì vicino. L’impianto smaltisce rifiuti pericolosi e tratta fanghi industriali provenienti da tutta Italia. C’è poi l’acceso dibattito acceso sulla riapertura della discarica Ex Vergine, gestita dalla società Lutum Srl, collegata alla figura di Antonio Albanese, noto imprenditore locale e proprietario della Cisa Spa, che gestisce proprio gli impianti di Massafra. In relazione alla loro costruzione Albanese era stato coinvolto in un caso giudiziario che lo aveva condannato in primo grado per il caso del “boschetto fantasma”, che riguardava i tagli ed estirpazioni di un’area boschiva effettuati per rendere il progetto compatibile con le normative paesaggistiche vigenti. Un intervento effettuato però prima delle verifiche dei consulenti del Consiglio di Stato, chiamato in ultima analisi ad esprimersi sulla reale compatibilità dell’impianto con il Piano paesaggistico regionale.

A questi due impianti si aggiunge ora il progetto di un nuovo giacimento di rifiuti inerti che sorgerà in un’area tra il Mar Piccolo e il quartiere Paolo VI, un’area già fortemente compromessa da decenni di inquinamento industriale e militare. La S&C Costruzioni, azienda responsabile del progetto, ha presentato un piano che prevede la gestione di oltre 260mila tonnellate annue di rifiuti, con un traffico di 18.700 automezzi l’anno stimati, un vero e proprio serpentone di camion e mezzi pesanti che attraverseranno quotidianamente la città, seppellendola sotto polveri sottili e l’inquinamento acustico. L’impianto sorgerà su un’area di 40mila metri quadrati, pari a “cinque campi da calcio”, come hanno scritto alcune testate locali. Ma è soprattutto sulle emissioni di polveri sottili (PM10) che noi solleviamo alcuni dubbi che i documenti ufficiali non sembrano chiarire.
Visionando il Paur (Provvedimento autorizzatorio unico regionale) allegato al progetto, si apprende che le emissioni di PM10 previste possono raggiungere un picco di 780 grammi all’ora. Un dato che i giornali locali hanno definito “entro i limiti di legge”, ma che non risulta immediatamente interpretabile. Contrariamente ai limiti di concentrazione ambientale (che generalmente si esprimono in microgrammi per metro cubo e sono monitorati come medie giornaliere o annuali), qui si parla di emissioni in grammi per ora. La legge italiana, e le direttive europee recepite, fissano infatti un limite di 50 microgrammi/m³ come media giornaliera per le polveri sottili PM10 (con massimo 35 superamenti consentiti annualmente), limite che in molte zone industriali italiane è stato spesso violato. Tuttavia, il valore di 780 g/h – così come è espresso nel Paur – non si traduce automaticamente in un superamento di questo standard senza un’analisi complessa di dispersione atmosferica, dati meteorologici e caratteristiche dell’area.

Proprio questo è uno dei nodi critici: nel Paur sembra non essere presente uno studio di dispersione atmosferica dettagliato che possa spiegare come questi 780 g/h impatteranno sulla qualità dell’aria nel quartiere Paolo VI e nelle aree circostanti. In mancanza di questo, è impossibile garantire che l’impianto rispetti i limiti di legge e tuteli la salute dei cittadini. Più ancora, in base alle nostre ricerche, sembra che sia l’Autorizzazione integrata ambientale (Aia) che l’Autorizzazione unica ambientale (Aua) non siano pubblicamente disponibili. Si tratta di documenti chiave che, semplificando, riguardano rispettivamente impianti di grandi o piccole dimensioni. Entrambi i documenti dovrebbero però contenere valutazioni ambientali più approfondite, i piani di mitigazione e i limiti specifici per emissioni e scarichi. In pratica, senza la presenza di queste informazioni, è più complicato soppesare in modo corretto il dato sui PM10.
Il progetto di S&C Costruzioni, società con sede nel territorio, ha previsto un iter iniziato ufficialmente nel 2021, Tuttavia, come ha riportato Taranto Today “nessun ne sapeva nulla”. Il progetto, continua il sito locale, è passato con successo attraverso numerose autorizzazioni: “compatibilità ambientale e paesaggistica, autorizzazione unica ex art. 208 del D.lgs. 152/2006, compatibilità con il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti Speciali, il Piano Tutela delle Acque, parere igienico-sanitario e conformità acustica e urbanistica, Nessun ente coinvolto ha sollevato opposizioni bloccanti”. Insomma, il nuovo impianto è rimasto a lungo nell’ombra, senza grandi discussioni pubbliche né coinvolgimento della cittadinanza, fino a poche settimane fa, a ridosso delle elezioni comunali del 2025.

E potremmo non fare peccato pensando che questa tempistica non sia causale: in una città come Taranto, dove il tema ambientale è fortemente politicizzato, far emergere ora un’opera di questa portata solleva più di qualche sospetto sulle ragioni che hanno tenuto il progetto nascosto per così tanto tempo, nascondendo l’impatto che avrebbe sulla qualità della vita e sulla salute pubblica. Non va inoltre sottovalutato l’impatto del traffico pesante generato: 18.700 automezzi all’anno significa una media di circa 51 camion al giorno che percorreranno strade urbane già fragili, contribuendo all’aumento delle emissioni di polveri sottili e di altri inquinanti, peggiorando così una situazione dell’aria che a Taranto è già critica per la presenza di industrie pesanti e del traffico. Basti pensare che nell'arco di 14 anni, dal 2002 al 2015, nel Sin - Sito di interesse nazionale - di Taranto sono nati 600 bambini malformati, con una prevalenza superiore all'atteso calcolato su base regionale. (Studio epidemiologico Sentieri). Secondo i dati della Fondazione Veronesi, "nell’intera provincia, tra il 2006 e il 2012, si sono registrati poco più di 3.000 casi di cancro all'anno. Oltre al già citato mesotelioma pleurico, a Taranto da tempo si osserva un maggior numero di diagnosi di tumori che riguardano il polmone, la pleura, la vescica, il fegato, il pancreas, il rene e il sangue. Superiore alla media è anche il tasso di leucemie infantili. Diversi studi hanno evidenziato inoltre una maggiore incidenza di malattie respiratorie e cardiovascolari, soprattutto nella popolazione infantile".
La trasparenza intermittente e le tempistiche se non altro curiose, ci portano a riflettere su come il tema della gestione dei rifiuti a Taranto non sia solo una questione tecnica o ambientale, ma qualcosa che si intreccia indissolubilmente con il potere politico locale e regionale, in un sistema dove affari, interessi e rapporti personali basati su reciproco vantaggio sembrano viaggiare di pari passo. Un esempio emblematico, lo abbiamo già menzionato, è quello di Antonio Albanese, che anche in seguito a un nostro articolo è emerso soggetto di riferimento nella rete clientelare che tenta di aumentare l’influenza della Lega a Taranto, in un’operazione politica che va oltre il semplice business, trasformandosi in un tentativo di controllo della gestione dei rifiuti, una delle risorse più “pregiate” e redditizie in città. Ma è fondamentale precisare che, quando si parla di Taranto come “Monnezzopoli del Sud” e, forse, d’Italia, si tira in ballo un processo lento e stratificato che si è sviluppato negli anni, passato quasi sempre sotto silenzio, o peggio, sotto l’ombrello protettivo di giunte e governi di segno opposto. Ed è di fronte allo spettro di questo patto, miope e insensibile alle richieste di chiarimento e giustizia, che Taranto e i tarantini devono trovare la forza per reagire.