Eccola qui, la prima puntata Adolescence di Falsissimo. “Ma non siamo su Netflix”, come ci tiene a precisare Fabrizio Corona. È tutto dannatamente vero. Tutto nasce da un pestaggio a Noha, frazione di Galatina, Lecce. Dietro a quello che sembrava un atto di bullismo violento sembra esserci una trama complessa e strutturale. Corona è cresciuto, si prende dell'infame, gli rubano il girato, lo minacciano. Intervista i ragazzi protagonisti, le loro mamme, e saltano fuori cose assurde. Con un colpo di scena finale. Ma partiamo dall'inizio. “Repubblica pubblica un video, tagliato e obliterato, in cui si racconta che a Galatina una gang ha massacrato di botte un ragazzo disabile. Subito dopo, anche gli altri giornaloni, Repubblica, Corriere, Il Fatto Quotidiano, rilanciano la notizia, aggiungendo dettagli falsi. Fanno clickbait, aggiungono dramma per aumentare visualizzazioni e incassare soldi, quelli che gli permettono di sopravvivere. Facciamo un passo indietro. Mi arriva un direct su Instagram da quella che chiameremo fonte zero. Non faccio il suo nome, perché me lo chiede lui. Mi scrive che lì, a Galatina, non si vive più e mi prega di aiutarli. Mi manda tutti i nomi, il racconto completo, i profili Instagram coinvolti e, cosa più importante, il video originale, quello che nessun giornale aveva pubblicato. Allora lo pubblico io. Pubblico anche una sola foto, presa da un solo profilo, perché gli altri erano chiusi. Quella foto, a occhio, mi fa intuire che c'è qualcosa che non quadra. Come musica ovviamente c'è Simba La Rue, quel genio, quella brava persona pubblicata dalla stessa Warner che poi non pubblica Morgan, complimenti. Accanto a lui c’è un altro ragazzo, giovane, pulito, ma con una faccia cattiva. Per stanchezza ed errore umano penso che sia suo padre. E scrivo, come commento: Siete dei pezzi di merda. Vi vengo a prendere uno per uno. Subito dopo, la fonte zero mi ringrazia: Spero che un po’ di giustizia sia stata fatta, grazie a te, l’unico a farla. Mi viene da pensare: non ero io quello criminale? Ora invece faccio il Batman. Come nel famoso film: i cittadini, quando hanno un problema, non chiamano la polizia. Chiamano Batman. Non c’è la polizia, non c’è lo Stato, non c’è la gente. Allora vado io. Qualcuno mi fa notare che forse non sono Batman, ma più un Commissario, uno che per i cazzi suoi indaga. Oggi sono il Commissario Corona. Arriva una telefonata. È Paolo Coluccia. Io non lo conosco. Sono anche nervoso, devo andare a lavorare. Mi dice che suo cugino vive la stessa situazione di emarginazione e che capisce la sofferenza, ma vuole sapere che ci faceva quel ragazzino nella foto con quell’uomo. Nel frattempo mi arrivano decine di messaggi su Instagram: Guarda che quello non è suo padre, il padre è morto. Scopro che la persona nella foto si chiama Gianluca Coluccia. E il cognome Coluccia, a Galatina e a Noha, pesa. Noha è una città criminale. Il clan Coluccia è uno dei sodalizi mafiosi storici della Sacra Corona Unita, fondato dai fratelli Coluccia. Traffico di droga, estorsioni, usura, infiltrazioni nella politica: sono radicati profondamente nel territorio. Due operazioni fondamentali — Grifone e Contatto — hanno colpito duramente la famiglia, ma non l’hanno cancellata. Con arroganza, chiedo a Paolo: Dammi il numero. Chiamo Gianluca Coluccia. Non sapevo chi fosse. Lui si mostra gentile. Paolo mi aveva spiegato che Rosario Gusa voleva la foto con il boss, una specie di Escobar o Scarface. Ma Gianluca racconta una versione diversa: pensava che io credessi fosse il padre morto del ragazzo e mi spiega che la madre gli aveva chiesto di fare da padrino alla cresima. Ma la domanda resta: è davvero il padrino di cresima o solo uno che conosce? Qualcosa ancora non torna.”


“Parliamo di Rosario Gusa. Lo vedremo meglio dopo, ma intanto: Rosario è il vero boss del gruppo, il capo carismatico, da quando aveva nove anni. Avete capito bene: nove anni. Per chi pensa che serie Tv come Adolescence raccontino la realtà, qui non siamo su Netflix. Qui raccontiamo storie vere. Controllo i voli. L’unico disponibile è alle sette del mattino, da Malpensa. Scrivo a Gianluca per confermare. Ma lui cambia atteggiamento: mi insulta, usando termini da codice criminale. Secondo lui, mi sarei comportato male e starei cercando lo scoop. Assurdo. Fabrizio Corona gli scoop li faceva nel 2000. Ora fa inchieste. Racconta storie vere. Nonostante tutto, parto. Stanchissimo, arrivo a Brindisi.
Arrivati, ci incontriamo in una pompa di benzina. Ci sono diverse persone. Qui incontro anche Carletto Zizza. Carletto Zizza è uno sfigato. Uno che si atteggia da criminale, fa il duro, ma è poca roba. Però ha una qualità: conosce i Coluccia. Perché lì, tra criminali, si conoscono tutti. Carletto si offre di accompagnarmi. Sul posto trovo anche due operatori video, molto svegli, e fissiamo l'appuntamento: ci vediamo a Galatina. A un certo punto mi scrive la sorella di Rosario Gusa. Mi dice: Mi dispiace tanto, mio fratello non era così. Arriviamo al bar di Galatina. All’improvviso, arriva uno grosso, enorme, un pescatore. Chiama Carletto Zizza, lo chiama, lo avvicina e poi viene da me. Mi parla in dialetto pugliese. Io non lo capisco bene, perché l’unico dialetto che parlo è quello di Catania — futti futti che Dio perdona a tutti — ma il senso era chiarissimo: Vattene. Questa non è la tua città. Qua ti ammazziamo. Non sono certo un codardo. In queste situazioni, provo solo una cosa: adrenalina. Pura adrenalina. Entriamo comunque nel bar. Un posto pieno di personaggi loschi. Il proprietario si avvicina, cerca di fare il simpatico: Guarda che bello questo posto, eh? Ma intorno a noi si radunano sempre più facce criminali. A un certo punto arriva uno con il borsello, tutto vestito di nero. Non è Gianluca Coluccia, ma un altro Coluccia, ancora più criminale. Era stato mandato direttamente dalla gente del carcere. Si appoggia vicino a me: io sono seduto al bancone. Inizia a parlare in dialetto, poi mi tocca. Lo guardo fisso. Mi intima di chiedere scusa a Gianluca Coluccia. Mi ordina di pubblicare un post per dire che Gianluca non c’entra nulla. Mi dice che mi conoscono, che hanno gente che era a Opera con me. Questa storia di Opera mi fa incazzare. Ho fatto quattro anni nel carcere di massima sicurezza di Opera. Ora, ogni volta che incontro un criminale, si spaccia per uno che era dentro con me. Non è vero niente. Poi arriva l’accusa che mi manda fuori di testa: mi dà dell'infame. Questa parola, infame, nel mondo criminale ha un significato preciso: è chi si vende, chi fa la spia. Io non sono un infame. Se vado da solo, faccia a faccia con quattro criminali del cazzo, senza scorta, per fare informazione, non sono un infame. Sono uno che fa il suo lavoro. L'infamità tenetevela voi. Io sono venuto a raccontare la verità”.

“A un certo punto la situazione si scalda. Alcuni cercano di calmarmi: Dai, Fabrizio, lascia stare. Ma io non sono uno che lascia perdere. In mezzo a tutto questo casino, incontro di nuovo la sorella di Rosario Gusa. Le dico: Guarda che Rosario fa parte del clan Coluccia. Lei scoppia a piangere. Mi risponde: Io non ho mai detto una cosa del genere. Fabrizio, io non lo so, non so niente. Non so se fa parte del clan. Mentre lei piangeva, riesco comunque a farmi dire dove abita il fratello. Dovete sapere che quando arriva una trasmissione televisiva in questi paesini, la gente scappa. Quando arrivo io, invece, la gente viene. Mi guarda, mi parla, mi indica.Così corro a casa del fratello di Rosario. A un certo punto, vedo una signora che si avvicina a una macchina. La riconosco. Scappa. Ordino ad Antonio: Seguila! A un certo punto caricano un altro dietro... Ah, c'è il figlio, è lì dentro. Ora chiameranno qualcuno, chiameranno i criminali. Bravo.
E noi? Noi abbiamo paura dei criminali? No. Trattative non ne facciamo. A noi basterebbe una dichiarazione. Lei si ferma, si gira... immaginatevi la scena: mi abbraccia fortissimo e scoppia a piangere: Fabrizio, non ce la faccio più. Mio figlio mi ha rovinato la vita. È finita. È finita. Comincio a intervistare la madre, ma arriva un avvocato. Cafonissima, molto sicura di sé. Mi dice: Io non faccio televisione come lei. Io non faccio spettacolo! Arriva la polizia, chiede i documenti. Cannuccia, il mio autista, mi fa l’occhiolino e dice: Il ragazzo è là dietro.
Di nascosto scappo, vado da lui. Apro la portiera. Gli parlo: Perché hai fatto questo? Perché ti sei messo in mezzo a queste cose? A tredici anni dai colpi di cinghia? Lui abbassa lo sguardo, atteggiamento da bullo. Iniziamo a chiacchierare. A un certo punto mi dice: Chiamo l'avvocato.
Torniamo indietro, parliamo con la polizia, gentilissimi. Intanto fuori, la gente urla: Fabrizio! Fabrizio! Andiamo in stazione, riprendiamo tutto. Chiamo il mio team: riunione generale. Prima di partire, uno degli operatori, tutto contento, mi dice: La scheda la vuoi tu? No, portala via. Io parto tre giorni, poi montiamo tutto. La mattina dopo mi scrive: Problemi. Dobbiamo sentirci subito. Lo chiamo immediatamente. Telefonata registrata. Sentite cosa mi dice: Due persone sono venute, hanno preso la memory card. Non so cosa hanno fatto. Sono nel panico. Non so neanche chi siano". Glielo spiega Corona: “Il clan Coluccia! Sono entrati in casa.”

Poi Corona intervista direttamente il ragazzo aggredito, Amin. “Come ti chiami? Amin. Quanti anni hai? Sedici. Di dove sei? Tunisino, ma nato e cresciuto qua. Cosa vuoi fare da grande? Lo chef. Sei mai stato coinvolto in risse? No. Quel giorno ero distratto, guardavo il cellulare. Sono entrati sfondando la porta. Non me ne sono accorto. Mi hanno fatto male. Penso di avere una costola fratturata.
Aveva paura, certo. Non capiva nemmeno chi fossero. Aveva solo il panico. Urlava scusa, scusa per paura. Uno dei ragazzi che lo ha aggredito gli ha scritto: Scusa bro, volevo solo fare il figo. Capito? Aggrediscono per fare i fighi. Amin sembra un ragazzo pulito, intelligente. È furbo. Questa generazione è avanti cento anni. Non hanno più limiti. All'inizio Amin non voleva nemmeno denunciare. Per paura di altre ritorsioni. Ma la prima cosa che ha fatto è stata postare: Non sono disabile. Perché? Perché sui giornali avevano scritto che era in carrozzina. E lui voleva solo raccontare la verità. Bravo. Il fatto è che Amin ha il diabete. Ha un apparecchio per l’infusione continua di insulina. Quel giorno, se l’apparecchio si fosse rotto, poteva morire. Sua madre ci spiega tutto: Se va in ipoglicemia va in coma. Può restare paralizzato, morire.E tutta Galatina sa che Amin è diabetico. Era stato cacciato da scuola proprio per quello: perché la scuola non voleva prendersi la responsabilità. Questa è la Puglia che non volete vedere. La famiglia di Amin è una famiglia in difficoltà.
Due figli disabili, vivono di sussidi. La madre ci racconta come Amin venga bullizzato da anni. Da sempre, da quando era in terza media. Da Rosario. E non è la prima volta che è andata a casa loro a chiedere spiegazioni. La madre di Rosario le ha detto: Vai via. Non venire mai più a casa mia. E ora la madre di Amin non ce la fa più. Piange. Si dispera. Vorrei solo i diritti per mio figlio. Non voglio vederlo più picchiato. Non voglio che finisca in galera nessuno, ma che si allontanino da lui. Basta.” Poi si passa a una chiamata tra la madre di Amin e quella di Rosario. “I primi tre messaggi della madre di Amin, indirizzati alla madre di Rosario, sono molto duri. La madre di Rosario, a sua volta, risponde in maniera arrabbiata, parlando addirittura di vendetta — una parola terribile, soprattutto se riferita a dei ragazzi. In questi scambi si legge chiaramente la tensione: si parla di cinghiate, di botte, di amicizie tradite. La madre di Rosario racconta che suo figlio ha detto di essere amico di Amin e di non avergli mai fatto del male, ma dalle immagini video la realtà sembra diversa: Amin viene colpito ripetutamente con una cintura. Arriva poi il momento di sederci davanti all'avvocato e iniziare a fare una serie di domande. Mi torna alla mente che la madre di Amin, durante una precedente intervista, mi aveva parlato di alcuni messaggi scambiati tra lei e la madre di Rosario nei giorni della vicenda. Le avevo chiesto se li avesse ancora, e lei mi aveva detto di no. Invece, ora, la madre mi porge il telefono: quei messaggi ci sono.
Domanda: Voi li avete dati questi messaggi alla procura?
Risposta: No.”

“Eppure quei messaggi sono fondamentali: raccontano un'altra versione dei fatti, forse la vera storia. I primi tre messaggi della madre di Amin, indirizzati alla madre di Rosario, sono molto duri. La madre di Rosario, a sua volta, risponde in maniera arrabbiata, parlando addirittura di vendetta: una parola terribile, soprattutto se riferita a dei ragazzi. In questi scambi si legge chiaramente la tensione: si parla di cinghiate, di botte, di amicizie tradite. La madre di Rosario racconta che suo figlio ha detto di essere amico di Amin e di non avergli mai fatto del male, ma dalle immagini video la realtà sembra diversa: Amin viene colpito ripetutamente con una cintura. La madre di Rosario dice che tutti, polizia, carabinieri, hanno visto il video, e che i ragazzi coinvolti sono ben conosciuti dallo Stato. Aggiunge anche di avere altri documenti su precedenti litigi tra Amin e suo figlio. Poi le madri sembrano trovare un punto d'incontro. Entrambe si lamentano della cattiva educazione dei ragazzi di oggi, specialmente dei giovani di Galatina: raccontano di ragazzi armati, di risse, di coltelli e pistole già a 9 anni.” A questo punto, Corona, nello studio dell'avvocato con Amin e i genitori, mostra alcune foto di ragazzi di 14 anni armati: pistole vere, coltelli, tirapugni. Le foto provengono da Instagram.
Domanda: Conosci questi ragazzi?
Risposta: No, ma fanno parte della rissa.
Quando si chiede da dove arrivassero, Amin ammette che i ragazzi erano seguiti su Instagram e che in alcuni casi li conosceva. Corona prosegue: “La situazione è grave: le immagini rivelano un vero e proprio gruppo organizzato, una gang. Nel corso dell'interrogatorio, emerge un altro dettaglio: Amin aveva subito un'aggressione simile già il sabato precedente.
Era stato picchiato insieme a un amico da un gruppo di sedici ragazzi, per motivi futili legati sempre a questioni di rispetto o supremazia sociale. Alla domanda, perché ti hanno picchiato?, Amin risponde: Per lo stesso motivo. Conclusione: È evidente che esiste una banda di minorenni, armati, che agisce sui social e nella realtà con modalità da criminali. Tutto questo non giustifica in alcun modo il pestaggio di Amin filmato e diffuso, ma introduce una narrazione più complessa: Amin nasconde qualcosa. Infatti, la diffusione del video parte da Sofia, la ragazza che filma la scena e poi la gira a Rosario, il capo branco, il bullo tredicenne che per primo la pubblica sui social, per vantarsi. Un lato positivo: nel video si sente Amin dire chiaramente: Io non sono disabile. Questa frase smentisce molte narrazioni distorte circolate nei giorni successivi. Infine, quando vengono mostrati i volti dei ragazzi e nominati uno per uno, Amin reagisce in modo strano: si arrabbia, l’avvocato si infuria, il padre è esterrefatto, e la madre tenta di strappargli il telefono di mano. Sta venendo fuori la verità. Una verità molto diversa da quella che vi avevamo raccontato fino a ora. Una verità che troverete documentata nel prossimo episodio”.

