Tutto ha inizio con un post su Facebook di Silvio Bessone, maestro cioccolatiere piemontese di fama internazioale, titolare di Puro Cioccolato e della Cioccolocanda a Vicoforte, in provincia di Cuneo. Una mail, ricevuta dal Gambero Rosso, in cui lo si avvisa che la sua crema alle nocciole ha ricevuto un premio. “Sono commosso”, scrive il pasticcere, “abbiamo ricevuto il riconoscimento di Top Italian Food 2025 dal Gambero Rosso. Ora leggete cosa posso fare”. Bessone allega uno stralcio del link inviatogli dall’organizzazione, e il testo è il seguente: “Valorizzazione economica. La proposta di partecipazione al progetto, riservata esclusivamente alle aziende che hanno ricevuto il riconoscimento per il proprio prodotto, è di 10000 euro + Iva per ciascun prodotto premiato e prevede: una pagina di corporate communication all’interno della pubblicazione in italiano, inglese e cinese, con immagini e descrizione del prodotto premiato e del profilo aziendale; inserimento della scheda relativa al prodotto premiato sui siti gamberorosso.it e gamberorossointernational.com; presenza all’evento di presentazione/premiazione con 6 accrediti; inserimento del logo in tutte le azioni di comunicazione; diritti di utilizzo del bollino Top Italian Food per un anno”. Sembrerebbe una notizia degna di attenzione, visto il clamore che ha fatto l’articolo di Selvaggia Lucarelli sulla classifica di Forbes. Eppure, l’unico a riprendere la dichiarazione di Bessone, agli inizi di ottobre, era stato un blogger molto attento alle polemiche sul mondo wine e food, (qui i link alla sua pagina personale e alla sua pagina Instagram, Italian Wine Drunkposting, meritano). Il premio di Gambero Rosso riguarda una crema alle nocciole prodotta nel laboratorio di Bessone: il blogger ci ha spiegato di aver parlato con il cioccolatiere soltanto via mail, e che il maestro ha confermato quanto postato sui social, aggiungendo che tra l’altro non aveva “ricevuto richieste di campioni da valutazione. Forse potrebbero aver acquistato il prodotto dal nostro e-shop”, ha continuato il titolare della Cioccolocanda, “ma nulla che mi facesse pensare a partecipare ad un contest”. Per andare più a fondo, abbiamo telefonato direttamente al protagonista, Silvio Bessone. Abbiamo contattato anche Gambero Rosso, il quale ha specificato che si tratta di una proposta di comunicazione (legata anche al bollino e ai diritti del logo) che non pregiudica né cambia l’inserimento nella rivista cartacea, che è confermato. Nel caso di investimento da parte del cliente, è esplicitato che si tratta di una collaborazione con un’apposita scritta.
Bessone, come mai non ha accettato il premio?
Io ho tanti amici e colleghi che in questi giorni hanno annunciato di aver ricevuto proprio dal Gambero Rosso due torte, tre torte , magari anche un panettone e due biscotti di mais. Va bene, però mi sono posto la domanda, e a qualcuno lo chiederò direttamente: quanto gli è costato poter dire questo? Io, che sono stato premiato come il miglior produttore di crema di nocciola e cioccolato fondente al mondo, se avessi accettato il riconoscimento dal Gambero Rosso avrei dovuto sborsare 10.000 euro. Ora mi chiedo: se io dovevo pagare così tanto, questi che vantano due o tre torte, quanto avranno pagato? Non lo so, e non voglio insinuare nulla, ma è difficile non nutrire sospetti. Magari i loro premi sono veri, non devono pagare nulla per le due torte e io sbaglio a pensar male. Però, che coincidenza: tutti fanno parte di associazioni di pasticceria come Apei o Ampi, circuiti dai quali io sono uscito anni fa per forte disaccordo con Iginio Massari e altri, proprio perché non ho mai sopportato le marchette che giravano. Poi dopo mi sono reso conto che dieci anni dopo anche gli altri hanno deciso che era meglio che Massari andasse a cantare in un altro cortile, ma questo è un altro discorso. Noi, come maestri pasticceri italiani, dovremmo essere ambasciatori del gusto, rappresentanti di un culto, e non dei marchettari che rivendono etichette comprate.
Quindi, secondo lei, chi partecipa a certi circuiti paga sempre cifre simili?
Guardi, io non parlo a caso. Sul mio sito ho pubblicato un articolo dove racconto la mia esperienza personale, lo possono vedere tutti come sono venuto a sapere di questa "tassa" di 10.000 euro richiesta dal Gambero Rosso. Ho anche messo il link: chiunque può cliccare e verificare. E non è un attacco, ma una riflessione: se devo pagare per essere premiato, è chiaro che non si tratta più di un riconoscimento meritocratico. È diventato il mercato delle vacche: se sei nel circuito, sei bravo; se sei bravo, vendi; se vendi, hai soldi; e se hai soldi, paghi la pubblicità. Questo sistema funziona così, ma a me non piace. Credo che tutte queste riviste siano degli strumenti per arruffianarsi i fenomeni, per tirare le mucche.
Il problema è anche la mancata trasparenza?
Certo. Se in un film compaiono una Mercedes o una bottiglia di Moët & Chandon, è obbligatorio indicare che ci sono messaggi promozionali. Se lei vede Tessa Gelisio in tv che usa un Bimby al posto di un frullatore, vuol dire che qualcuno ha pagato per quello. Ma se vedo un pasticcere premiato con le “tre torte”, nessuno mi dice che quel premio è a pagamento. È pubblicità non dichiarata. Io che so come funziona, quando vedo tutti quei premi penso: ma quanto caz*o hanno pagato questi?
Ma questi premi poi che ritorno hanno? Dopo un premio si possono aumentare i prezzi?
È una questione di ego. Più premi hai, più ti senti bravo, più puoi vantarti con i clienti. È come una gara a chi ce l’ha più lungo. Prendiamo Massari, Cortinovis o Dalmasso: tutti con “tre torte”. Sono bravi, non lo nego, ma guarda caso sono anche il gotha delle associazioni. Mi sembra una grande operazione di marketing, una enorme marchetta collettiva: si premiano fra loro per consolidare il circuito. Poi a questo si aggiungono anche i brand che finanziano la cosa.
E il consumatore non si accorge di nulla.
No, ed è qui che risiede il problema. Il consumatore vede una medaglia o un riconoscimento, e subito pensa che dietro ci sia il merito, ma non sa che spesso ci sono costi enormi per partecipare. È un sistema ben oliato: grandi marchi come Lavazza, Illy o Hausbrandt sponsorizzano riviste e premi, e tutto diventa una marmellata – anzi, a volte una confettura, tanto per essere precisi.
Però uno come Massari, che ormai è una multinazionale e lo trovi anche al supermercato, ha bisogno di queste cose?
In questo contesto Massari è come il verme sulla canna da pesca: lo usano per attirare tutti gli altri. Se lui ha "tre torte", io, con "due torte", mi sento vicino a lui, no? È tutto studiato. Una volta mi proposero di fare il testimonial per "Eccellenze Artigiane Italiane". Ai tempi lavoravo in televisione quindi ero mediaticamente esposto. Sembrava un’iniziativa nobile, ma indagando ho scoperto che era solo una puttanata per spillare soldi a dei poveri illusi che credevano di essere stati premiati per qualcosa. In quel caso avrei dovuto essere io il verme sull’amo, ma siccome dovevo metterci la faccia ho deciso di fare qualche ricerca in più. Ho scoperto che millantavano un evento internazionale a Bruxelles per promuovere le aziende che erano state inserite nel palmares di queste eccellenze italiane. L’evento era una serata alla pizzeria Da Pino a Bruxelles.
Pizzeria Da Pino?
Da Pino proprio era un pizzeria, non è un nome inventato così, per sminuire. Io mi sono laureato a Bruxelles quindi conosco bene la città di Bruxelles, anche per lavoro perchè ho fatto consulenze in alcune aziende, e mi chiedo: come? Devo pagare 500 per mandargli i prodotti e venderli poi ai clienti di Pino? Cioè, capisci che è una cagata immonda, no? Lo scopo era quello di avere 500 euro da tutti i polli che ci stavano, più 250 euro di adesione per poter avere il diploma, più altri 500 euro se volevi la targa in metallo, poi altri ancora se volevi un plico con 100 bollini da mettere sulle fatture.
Quindi questo meccanismo esiste da tempo?
Oh, certo. Quando ero bambino, tutti i ristorantini del cacchio in provincia avevano un premio che si chiamava il “Mestolo d’Oro”, perché chiamarlo il cogli*ne di turno era troppo brutto. Pagavi 250mila lire e te lo davano, poi partecipavi alla serata col deputato e la conduttrice di turno. È lo stesso concetto dei “Chocolate Awards” organizzati da Monica Meschini in Inghilterra. Ogni prodotto che vuoi far valutare ti costa 50 euro per la selezione italiana, altri 50 per quella europea, e così via. Vuoi vincere? Allora devi frequentare corsi da 500 euro l’uno. È un sistema che si autoalimenta, e alla fine si è quasi costretti a partecipare. Lo fanno molti amici, anche i miei allievi, come Riccardo De Petris che l’altro giorno ha pubblicato sui social tutti questi riconoscimenti: un anno straordinario, diceva. Io ho pensato, ma quanto avrà speso?
Alcuni dei suoi colleghi che ricevono premi importanti sono stati suoi collaboratori.
Cortinovis, Dalmasso, Leonardo Di Carlo, Rinaldini: erano tutti miei assistenti o riserve quando ero capitano della Nazionale Italiana Pasticceri. Sono tutti bravissimi, ma questo non toglie che il sistema dei premi non sia meritocratico. Chi paga di più, ottiene di più. E non solo, perché poi quando le associazioni vedono che hai preso un premio poi dicono: ah, questo qui è il pollo, aspetta che gli mando il premio anch'io! Quindi lo premia Golosaria, lo premia il Gambero Rosso, il Gambero Rosa, se io e lei ci inventassimo il Chicco d'oro, la Fava d'oro, il Boccalone d’oro (pesce che abbocca facilmente, in piemontese), loro pagano e se li prendono. Poco, ma sicuro.
Quindi, chi vince cosa guadagna davvero?
Status. Oggi, per vendere, devi avere almeno una medaglia. Altrimenti non ti considerano. È un circolo vizioso: il consumatore paga di più per qualcosa che magari non vale quel prezzo, ma che sembra esclusivo.
E alla fine chi ci rimette?
Sempre il consumatore. Paga cifre da Ferrari per qualcosa che vale come una Skoda. Ma io vado avanti per la mia strada, senza riconoscimenti comprati. Forse non avrò mai successo come altri, ma almeno vivo sereno e coerente con i miei valori. Poi che dire, Dalmasso è bravo, io gliene darei anche quattro di torte, e magari loro a differenza mia non devono pagare niente per i premi.
Ma perché loro no, e lei sì?
Perché io non sono nessuno.
Beh, insomma
Io sono uscito da anni dal circuito dei fenomeni, proprio perché non ho mai accettato certe situazioni, e forse il boccalone d'oro non l'avrei mai preso. Però c'è gente a cui il boccalone d'oro piace, è l'arte della lusinga. Ci sono persone che pisciano addosso dal piacere quando un giornalista, un blogger o qualcuno gli fa un complimento. Io odio la piaggeria. Se qualcuno mi fa un complimento per una cosa che io riconosco di aver fatto in maniera normale, o sbagliata, mi infastidisco. Perché vuol dire che sta soltanto provando a leccarmi il cu*o, oppure non sa cosa sta dicendo. L'altro giorno ho sentito Castagna che faceva delle affermazioni a Geo e Geo, parlava di fermentazione ma poi si è incartato, perché quando parli di cose che non conosci poi arrivi a un punto in cui ti blocchi contro un muro. Lo stesso vale per i premi: puoi far finta di essere un campione del mondo ma chi compra il tuo prodotto, se ne capisce qualcosa, ti becca.
Oggi ci sono molti prodotti firmati dai grandi nomi, nei panettoni come nella moda, che vengono prodotti in delega. Lo scorso anno si discuteva di panettoni venduti sotto firme celebri, Barbieri, Cracco, Cannavacciuolo ma prodotti in altri laboratori.
Esatto, da Morandini, o anche da Albertengo, che comunque fa un ottimo panettone. Però quei laboratori non c'entrano con certi fenomeni di marketing che vediamo. Mi lascia perplesso che tutti si definiscono specialisti, ma alla fine fanno produrre tutto da terzi.
Forse sono più manager che artigiani.
Prenda il caso di Giacomo Boidi, un mio amico di Castellazzo Bormida, che ha realizzato cioccolatini per Prada e Marchesi. Durante un'intervista gli hanno chiesto se poteva rivelarlo; lui si è fidato, ma il giornalista l’ha messo in difficoltà. Il problema era che Marchesi aveva appena dichiarato di produrre i propri cioccolatini in casa, quindi ne è nata una polemica enorme. Gino Fabbri, all'epoca presidente dell’Ampi, se la prese con me per una frase attribuita erroneamente a me ma detta da Guido Gobino: "Il vero cioccolatiere non è chi scioglie il cioccolato, ma chi lo produce". Io non avrei mai fatto un'affermazione del genere, ma Gobino ha il diritto di pensarla così. La questione si è gonfiata, e Fabbri ha commentato sui social come se l'avessi detto io. Si è scatenata una difesa corale di Fabbri, soprattutto da parte di Maurizio Santin, che ha parlato senza conoscere i fatti. Gli ho scritto: "Maurizio, la differenza tra me e te è che se io sputo un pelo, è della mia barba. Tu, invece, devi fare il test del DNA per capire da quale culo viene". Non sarò stato delicato, ma almeno sono stato chiaro.
Insomma, le polemiche non le mancano mai.
No, infatti. Ma non vado mai a leccare il culo a nessuno. E ho sempre detto che chi lo fa ha un pessimo alito!
Dopo aver pubblicato queste cose, ha avuto problemi con Gambero Rosso?
No, anche perché io sono nessuno. E se mi avessero querelato, avrebbero solo amplificato la questione. Io ho messo nero su bianco i fatti, senza insultare. Contestarmi avrebbe significato dare visibilità a ciò che ho scritto.
Non è certo un ambiente semplice.
No, ci sono pesci e le esche. Le esche sono i premi, le certificazioni, i grandi eventi. Ma dietro ci sono i soldi, e tanti. Non basta la qualità: servono i mezzi per permettersela. Per esempio, ho abbandonato Slow Food nel 2002. Al Salone del Gusto vidi un produttore di nocciole che denigrava gli altri senza neanche essere iscritto al consorzio Igp. Mi avvicinai per fargli domande, e lui mi mise le mani addosso.
Incredibile.
Non reagii, pur essendo un ex pugile. Potevo mandarlo al tappeto in due secondi, ma preferii chiamare gli organizzatori di Slow Food, i quali però fecero finta di niente, non presero posizione. Mi rivolsi a Silvio Barbero e Cinzia Scaffidi, ma nessuno fece nulla. Rimasi profondamente deluso.
I presidi Slow Food sono un altro meccanismo fallato?
Per ottenere un presidio servono sponsorizzazioni. Prenda il caso delle Paste di Meliga di Mondovì: il presidio non sarebbe mai nato senza i 30.000 euro di Beppino Occelli. E non perché Occelli sia un benefattore, ma perché aveva i suoi interessi. Lui ha un'industria che fattura 10 milioni di euro e passa come un artigiano che munge la vacca e si fa il letto di burro. Il problema, come sempre, è la distorsione della comunicazione.
Quindi il sistema premia solo chi investe?
Certo, anche in eventi come Golosaria o iniziative simili. Per esempio, anni fa proposi a Paolo Marchi di lavorare a un progetto sul cioccolato. L’idea era mia, poi lui la vendette a Valrhona senza nemmeno avvisarmi. Quando lo affrontai, rispose con freddezza.
In tanti anni di carriera, ne ha viste tante.
Il mio problema è che ho una memoria da elefante, non dimentico nulla. Ma alla fine preferisco dedicarmi ai miei cani e andare a tartufi. Anzi, adesso scendo che mi stanno aspettando.