Tre ciclisti investiti e uccisi in Puglia, e non tutti ne sono così dispiaciuti. Non è una novità, ma ogni volta stupisce, anche se è chi ancora si stupisce che dovrebbe stupirci. Sui social – che qualche poco avveduto ostinato ancora vorrebbe separare dalla “vita vera”, quando invece ne sono ormai l'appendice più sincera e quindi triviale – c’è chi gode. E c’è chi, con minor gradazioni di infamia, distribuisce colpe: ai ciclisti, oppure anche ai ciclisti. “Commenti che non esprimono cordoglio, ma rancore. Che non interrogano, ma accusano. Che non invocano soluzioni, ma trovano capri espiatori” scrive cyclinside.it, denunciando una ferocia che non è solo virtuale.
La strage di Terlizzi ha la geometrica limpidezza della tragedia: sei amici, una domenica mattina, la bici come passione e rito. Poi il guidatore della Lancia Delta nera, la velocità, il volo. “Ci ha sfiorato, poi è rientrato e li ha presi in pieno. Andava probabilmente oltre 150 all’ora. Sono volati in aria. Noi siamo vivi solo perché eravamo più indietro” racconta uno dei sopravvissuti al Corriere. La cronaca dice tutto – l’urlo dell’automobilista disperato, la chiamata al 118, i corpi sull’asfalto – eppure non basta mai, perché il dopo è almeno altrettanto crudo del durante.
Sotto ogni articolo, ogni post, ogni notizia, inizia la guerra civile permanente tra automobilisti e ciclisti, due tribù nemiche prigioniere della stessa strada. Da una parte chi rivendica la sacralità del rimanere in corsia, del diritto di arrivare in orario, del non rischiare l’incidente (e magari la galera) a ogni chilometro. Dall’altra chi risponde con l’elenco delle vittime, dei nomi, delle statistiche: ogni 39 ore un ciclista muore in Italia, 132 da gennaio ad agosto. Ma la matematica della sofferenza non converte nessuno: le strade sono più che mai luoghi di rancore.

I ciclisti e le loro associazioni rivendicano comprensibilmente pari dignità nelle gerarchie della mobilità, eppure chi difende la bici dimentica, troppo spesso, la fatica di chi ogni giorno guida per lavoro, la rabbia di chi non riesce a superare chi va in giro per diletto, il caos di strade provinciali, di montagna o di lago o di mare, strette, tortuose, dove ogni sorpasso è un rischio e ogni rallentamento una frustrazione. Nei tornanti o sul litorale, o in quelle arterie secondarie che in molti territori diventano uniche, la convivenza è spesso impossibile. Gli automobilisti esasperati dal traffico, dal tempo che scivola via, dal rischio di una curva cieca; i ciclisti che vorrebbero godersi il mondo esterno ma trovano un ambiente ostile e si chiedono “se i trattori possono girare per strada, perché noi no?” (ignorando gli insulti che a loro volta si beccano i conducenti di mezzi agricoli che bloccano il flusso veicolare). Clacson, bestemmie, gesti del dito medio, e il sospetto reciproco che l’altro sia “l’ostacolo”, il nemico. Chi fa queste strade ogni giorno lo sa: la mobilità dolce può diventare mobilità amara, o anche guerreggiata. Gli automobilisti non sempre rispettano le regole; molti ciclisti, va detto, neppure, oltre a non usare spesso “per principio” le ciclabili (che costano miliardi alla collettività e divorano parti di territorio naturale o perlomeno di carreggiata senza dunque risolvere granché, a volte proprio nulla).
Sì, molti automobilisti sono stronzi, ma lo sono anche molti ciclisti. Nessuna delle due categorie può vantare una superiorità morale: molti sia tra chi va in macchina e chi va in bici insultano gli altri, li mettono rischio, sono arroganti o noncuranti. La strage di ciclisti, come ogni tragedia, dovrebbe teoricamente unire, almeno nel manuale delle anime belle: invece si trasforma in tribunale permanente dove ognuno trova un colpevole, ma il colpevole o chi agisce in concorso di colpa non è mai rintracciato in sé stessi. Il dolore non unisce nella riflessione e nella richiesta di sicurezza, ma nella ricerca di una resa dei conti.
Il comandante della polizia locale di Verona, Luigi Altamura, ricorda citato dal Corriere che i ciclisti “in città devono pedalare nelle ciclabili dove presenti” e che di contro “gli altri utenti devono rispettare anche le distanze laterali, come impongono le nuove norme introdotte con la riforma del Codice della strada (anche se non viene mai detto che in molte strade non ci stanno nemmeno due macchine, figurarsi due macchine più i gruppi di ciclisti), mentre il presidente della Federciclismo lancia un appello per una riforma urgente: “Credo sia arrivato il momento che tutti facciano la propria parte affinché questa strage si fermi”.

La verità? Hanno tutti ragione, hanno tutti torto. Il dolore delle vittime chiede giustizia, la frustrazione di chi guida domanda attenzione, le regole, se ci sono, non funzionano, e ognuno cita solo l’eventuale parte di Codice della strada che gli interessa e mai il buon senso. La natura umana non arriva con l’empatia già preinstallata: si impara, quando si vuole (e si riesce a) imparare. Chi sono le vittime? Antonio Porro, imprenditore settantenne, “nonno che tutti avrebbero voluto”, Sandro Abruzzese, trent’anni, assicuratore, Vincenzo Mantovani, cinquantenne, padre di due figlie, meccanico. Ma, nel racconto nazionale, diventano subito altro: simboli, avatar, oppure fastidio. La loro morte, invece di unire, riattiva la divisione.
E mentre la cronaca recita le sue litanie (“L’automobilista, dopo aver frenato, è sceso dall’auto e ha chiamato i soccorsi: ‘Venite, ho investito dei ciclisti’. ‘Cosa ho combinato, cosa ho combinato’”), la verità più profonda resta intatta: la pace tra chi va in bici e chi va in auto (che, quasi incredibilmente, quasi mitologicamente, a volte sono la stessa persona, anche se ovviamente mai nello stesso momento, quindi si tratterebbe di fare anche pace con sé stessi) sembra più improbabile di quella tra israeliani e palestinesi, e qui, fatte le dovute proporzioni, non c’è nemmeno il miraggio di una terra promessa. Che strada bisogna fare per non odiarsi? Per ora, nessuno lo sa.