«Serviranno scelte difficili». Con queste parole, ripetute più volte in occasione della presentazione dei conti semestrali, il nuovo Ceo Antonio Filosa ha delineato il futuro prossimo, evidentemente non del tutto roseo, di Stellantis. Il gruppo ha chiuso il primo semestre con una perdita netta di 2,3 miliardi di euro, frutto di una combinazione di fattori negativi: calo dell’8% nelle vendite globali (2,8 milioni di veicoli), soprattutto negli Stati Uniti, mercato chiave per la redditività del gruppo. Filosa ha annunciato una controffensiva commerciale oltreoceano, puntando su modelli ad alta marginalità, anche grazie alla politica ambientale più permissiva dell’amministrazione Trump. La rimozione delle sanzioni sulle emissioni permetterà infatti il ritorno di veicoli benzina ad alta cilindrata, accantonati durante la gestione Tavares in favore dell’elettrico. Tuttavia, la stessa politica americana ha generato contraccolpi. Il cambio sfavorevole euro-dollaro ha comportato un onere vicino al miliardo, mentre i dazi Usa potrebbero pesare per 1,5 miliardi nel 2025. Inoltre, i recenti accordi commerciali con Ue e Giappone rischiano di penalizzare paradossalmente le auto prodotte negli Usa con componenti estere. Filosa ha comunque ribadito il sostegno al protezionismo industriale di Washington, ricordando che metà delle auto vendute negli Stati Uniti proviene da Canada e Messico, e l’altra metà da altri Paesi. Anche in Europa non mancano le criticità. Il rallentamento delle vendite nei veicoli commerciali, segmento ad alta redditività, ha inciso pesantemente sui risultati. Corriere Economia ha spiegato che Filosa imputa la frenata all’instabilità macroeconomica e alle nuove normative ambientali europee, su cui il gruppo sta cercando un dialogo costruttivo con Bruxelles. Le scelte strategiche ereditate da Tavares vengono progressivamente riviste. L’uscita dai progetti sull'idrogeno, considerato tecnologicamente acerbo e non redditizio, è costata 700 milioni di euro e ha causato frizioni con Michelin. Altri 700 milioni sono derivati dalla svalutazione di piattaforme veicolo, in particolare quelle di alcuni modelli Maserati, marchio in forte sofferenza (-28% nel semestre). Il calo generalizzato delle vendite tocca anche altri brand europei del gruppo: Lancia, Alfa Romeo, Ds e in parte Fiat, penalizzati da gamme limitate e poco aggiornate. Gli analisti tornano quindi a mettere in discussione la sostenibilità di un portafoglio composto da 14 marchi, in termini di sviluppo e marketing. Filosa, però, respinge l’ipotesi di dismissioni: il numero elevato di brand è, a suo dire, un vantaggio competitivo contro i costruttori cinesi. L’obiettivo è gestirli meglio, anche grazie a nuove assunzioni mirate, come quella dell’ex Renault Gilles Vidal, ora alla guida del design per i marchi europei. Ma se non ci saranno cessioni, quali saranno allora le “decisioni difficili” annunciate dal Ceo? Risposte più concrete sono attese dopo l’estate, in concomitanza con l’aggiornamento del piano industriale al 2030, previsto per l’inizio del 2026. Uno dei nodi centrali sarà la sovraccapacità produttiva in Europa, tema che coinvolge l’intero settore automobilistico. Anche Volkswagen ha ipotizzato, e poi ritirato, la chiusura di stabilimenti in Germania. Per Stellantis, il problema è più acuto in Francia e soprattutto in Italia, dove gli impianti sono largamente sottoutilizzati. Nel primo semestre 2025, la produzione italiana si è fermata a 221.885 unità tra auto e veicoli commerciali, in calo del 33,6% sull’anno precedente. Secondo la Fim-Cisl, a fine anno la produzione nazionale sarà di circa 440.000 veicoli: meno del 30% della capacità installata, contro il 70% necessario per una sostenibilità economica. Il gruppo ha promesso un piano di rilancio per il Paese, con investimenti e nuovi modelli, con l’obiettivo di raggiungere il milione di unità prodotte entro il 2030, come concordato col governo italiano. Resta ora da capire se Stellantis sarà in grado di trasformare queste promesse in risultati concreti.

Nel frattempo, Exor ha definito la doppia cessione di Iveco Group, cedendo il ramo militare a Leonardo e quello civile a Tata Motors, per un'operazione complessiva da 5,5 miliardi di euro. L’indiscrezione, circolata nei giorni scorsi, ha trovato conferma ufficiale: la società controllata dalla holding Agnelli-Elkann verrà divisa e venduta a due distinti player internazionali. La strategia, coordinata da Exor, prevede una dismissione “in due tempi”: il comparto difesa, considerato altamente strategico, sarà acquisito da Leonardo, affiancata dal partner tedesco Rheinmetall; mentre l’intera attività dei veicoli civili, dai furgoni Daily ai mezzi pesanti S-Way e agli autobus, finirà sotto il controllo del gruppo indiano Tata Motors. L’operazione si configura come una riorganizzazione profonda, orientata, secondo le prime dichiarazioni, alla creazione di nuove sinergie e al rafforzamento delle rispettive aree di business su scala internazionale. Il primo atto della nuova fase di Iveco riguarda il polo della difesa. Iveco Defence Vehicles (Idv), leader nella produzione di veicoli blindati e mezzi speciali come il Lince, passerà a Leonardo per un corrispettivo di 1,7 miliardi di euro. L’acquisizione punta alla creazione di un “campione nazionale” nel settore della difesa terrestre, attraverso l’integrazione delle piattaforme Idv con i sistemi elettronici e di sensoristica avanzata già sviluppati da Leonardo, in modo da costruire un polo industriale in grado di competere con i principali gruppi europei e globali del settore. Leonardo opererà in sinergia con Rheinmetall, partner tedesco già coinvolto in altre collaborazioni, per valorizzare ulteriormente la filiera dei veicoli pesanti. L’intera manovra ha ottenuto il sostegno del governo italiano, che la considera strategica per la sicurezza nazionale e coerente con i piani di rafforzamento della difesa: nei prossimi dieci anni è previsto un investimento da 23 miliardi di euro per l’acquisto di blindati e carri armati.

Archiviata la questione Iveco, John Elkann deve anche levarsi di torno le grane legate al Cda Juventus, dove il confronto si profila con un attore non da poco: Tether, una delle principali società globali di criptovalute, emittente dello stablecoin Usdt, ancorato al dollaro. Come riportato dal Fatto Quotidiano, all’inizio del 2025, Tether ha trasferito la propria sede dalle Isole Vergini britanniche a El Salvador, due giurisdizioni che offrono livelli molto bassi di trasparenza societaria. Il bilancio 2024 si è chiuso con un utile netto superiore ai 13 miliardi di dollari, una cifra che supera quasi del doppio quella di BlackRock, il maggiore asset manager al mondo. Attraverso acquisti in Borsa effettuati nei mesi scorsi, Tether ha acquisito una quota del 10,7% della Juventus, comunicandolo pubblicamente il 24 aprile. Il giorno successivo, il Ceo Paolo Ardoino ha richiesto ufficialmente l’ingresso nel consiglio di amministrazione del club. Tuttavia, Elkann ha respinto la richiesta. Sebbene l’amministratore delegato di Exor, la holding che detiene il 65,4% della Juventus, non abbia mai rilasciato dichiarazioni pubbliche su Tether, gli osservatori della famiglia Agnelli ritengono che la risposta di Elkann sia arrivata indirettamente, tramite un’inchiesta pubblicata dal settimanale The Economist il 4 luglio, dal titolo eloquente: "Come Tether è diventata la valuta dei sogni dei riciclatori di denaro". Exor è infatti il principale azionista della società editrice del periodico, con una partecipazione del 34,7% e diritti di voto limitati al 20%. Nel consiglio della società editrice siede Suzanne Heywood, direttrice generale di Exor, lasciando intuire un potenziale legame tra l’inchiesta e la posizione della holding. L’articolo, firmato da Oliver Bullough, ricostruisce il coinvolgimento di Tether in varie indagini sul riciclaggio di denaro. Viene citato lo stesso Ardoino, che ha respinto ogni accusa, e si fa riferimento all’attuale clima favorevole alle criptovalute negli Stati Uniti sotto la leadership di Donald Trump. L’inchiesta descrive anche l’episodio che potrebbe aver dato il via a una delle indagini più rilevanti degli ultimi anni nel settore crypto: nel novembre 2021, su un’autostrada britannica, la polizia ha sequestrato oltre 250.000 sterline in contanti a un autista sospettato di trasportare fondi illeciti. Tra i messaggi rinvenuti sul telefono del soggetto, sono emersi contatti con un collaboratore di Ekaterina Zhdanova, imprenditrice russa accusata di facilitare il riciclaggio per cybercriminali e narcotrafficanti. The Economist sostiene che Zhdanova fosse il punto nodale di una vasta rete criminale, collegata da un’infrastruttura finanziaria fondata su Tether. Secondo il settimanale, la tecnologia e il modello di business della stablecoin avrebbero permesso di far confluire più economie criminali, a reciproco beneficio: dai proventi del narcotraffico ai fondi dei clienti russi. Nel frattempo, la Juventus, come comunicato dal Cda il 28 marzo, ha annunciato un aumento di capitale fino a 100 milioni di euro, la cui definizione è prevista per settembre. Exor ha già anticipato 30 milioni. L’operazione dovrebbe essere condotta senza diritti di opzione, circostanza che escluderebbe Tether dalla sottoscrizione, riducendone la quota. Tuttavia, impedire ad Ardoino di ottenere un posto in consiglio sarà più complesso: tra il 3 e il 7 novembre, l’assemblea dei soci rinnoverà il board. Attualmente composto da cinque membri, tutti espressi da Exor, il consiglio dovrà riservare un posto ai soci di minoranza qualora venga presentata una lista che rappresenti almeno il 2,5% del capitale. Al momento, dietro Tether si colloca come terzo azionista della Juventus il fondo londinese Lindsell Train, con una partecipazione dell’8,7%. Per impedire ad Ardoino di ottenere un seggio, Elkann dovrebbe auspicare la presentazione di una terza lista, ipoteticamente proprio da Lindsell, che raccolga più voti di quella eventualmente proposta da Tether. In alternativa, potrebbe cercare di chiudere la partita tramite il riequilibrio delle quote derivante dall’aumento di capitale senza opzione.
