“Solo noi possiamo decidere”. Bastano quattro parole, fiamma e sintesi di una battaglia lunga venticinque anni, per attraversare la storia di Laura Santi, giornalista perugina, cinquantenne, che ha scelto di morire là dove la legge italiana si ostina a non scegliere: sul confine incerto tra il diritto e il limbo, tra il vivere e il lasciarsi andare. È morta, finalmente per lei, in casa, assistita dal marito Stefano, dopo un iter “lungo e complesso”, costellato di ricorsi, denunce, diffide, burocrazie e attese che sembrano la vera cifra del nostro paese. “Nell’ultimo anno le sofferenze di Laura erano diventate intollerabili”, ha raccontato il compagno. Intollerabili non solo per il corpo devastato dalla sclerosi multipla progressiva e avanzata – tetraplegia, spasmi, dolore feroce, un’incontenibile perdita della dignità – ma anche, per estensione, per quel paesaggio di diritti negati e ostacoli che l’Italia sa così bene erigere.

Era il 2000 quando Laura iniziò il suo sgradito viaggio nell’ombra della malattia, in sedia a rotelle da 16 anni, costretta progressivamente a delegare anche il minimo gesto. Eppure, nel cuore di questa routine crudele, Laura ha saputo essere voce pubblica, attivista, consigliera dell’Associazione Luca Coscioni: “La vita è degna di essere vissuta, se uno lo vuole, anche fino a cento anni e nelle condizioni più feroci, ma dobbiamo essere noi che viviamo questa sofferenza estrema a decidere e nessun altro”. Così Laura, questo il suo addio, questa la sua accusa.
Perché morire in Italia è difficile quasi quanto sopravvivere. Il dibattito sul fine vita si trascina come uno “sproloquio senza fine, l’ingerenza cronica del Vaticano, l’incompetenza della politica”. Laura lo denuncia senza infingimenti, testimone di un’assurda palude normativa: tre anni dalla prima richiesta all’Asl, due denunce, due diffide, un ricorso d’urgenza, la relazione medica arrivata solo nel novembre 2024, la conferma di collegio e comitato etico solo a giugno 2025. L’agonia della burocrazia si somma all’agonia del corpo. E intanto, “il disegno di legge che sta portando avanti la maggioranza è un colpo di mano che annullerebbe tutti i diritti”.
Ma cosa significa davvero “decidere”? Lo racconta Laura nella sua ultima lettera: “Non potete capire che senso di libertà dalle sofferenze, dall’inferno quotidiano che ormai sto vivendo. Mi porto di là sorrisi, mi porto di là un sacco di bellezza che mi avete regalato. E vi prego: ricordatemi”. Qui la soglia non è solo quella tra la vita e la morte, ma tra la possibilità di esercitare fino in fondo la propria volontà e l’obbligo di rimanere ostaggi della sofferenza. Non una fuga, ma una scelta arrivata con consapevolezza: “Ho avuto molto tempo per elaborare e maturare questa decisione, ho avuto molto tempo per capire quando era veramente il momento”, assicura Laura, che saluta ogni volto, ogni luogo, ogni piccola gioia, ogni ultima passeggiata fuori.
C’è in queste parole una consapevolezza lucida e feroce, un appello all’azione, una sfida a chi resta: “Seguite i diritti e le libertà individuali, mai così messi a dura prova come oggi. Fate pressione, organizzatevi, attivatevi: potrebbe un giorno riguardare anche voi o i vostri cari”. Ma soprattutto: “Pretendete una buona legge, che rispetti i malati e i loro bisogni”.

Per morire, Laura ha dovuto lottare. Per morire ha dovuto vivere l’inferno burocratico che il sistema italiano riserva ai suoi cittadini più fragili. In quel che è testamento e manifesto, ha lasciato scritto: “Non riuscire più a compiere il minimo gesto. Non più godere della vita, non più godere delle relazioni sociali. Che è quello che fa per me una vita dignitosa”. Non c’è retorica qui, solo una lucida contabilità del dolore, una confessione che ribalta il senso della pietà: “Fate lo sforzo di capire che dietro una foto carina sui social, dietro il bel sorriso che potevate vedere, c’era lo sfondo di una quotidianità dolorosa, spoglia, feroce e in peggioramento continuo”.
Eppure, nella sua ultima pagina, Laura consegna al futuro anche una carezza inattesa, il racconto di un addio vissuto in pienezza: “Me ne vado avendo assaporato gli ultimi bocconi di vita in maniera forte e consapevole. Intendetemi: io penso che qualsiasi vita resti degna di essere vissuta anche nelle condizioni più estreme. Ma siamo noi e solo noi a dover scegliere”.
La sua battaglia impossibile, vinta e persa a caro prezzo, resta lì dove la legge non arriva: una soglia interminabile in cui la libertà personale si scontra con la morale pubblica e il dolore individuale diventa terreno di scontro nazionale.
Laura Santi chiede solo una cosa, con quella sua ultima preghiera di essere ricordata “come una donna che ha amato la vita”. Ma siamo pronti a lasciar scegliere chi soffre? Siamo capaci di vedere oltre la nostra paura della morte e la nostra (spesso finta o mal diretta) compassione?