La Russa non è più fascista. A dirlo è proprio il presidente del Senato in un’intervista al Corriere della Sera. Dice di essersi lasciato alle spalle la fascinazione per il Ventennio (nonostante campeggino in casa ancora alcuni cimeli – regali paterni – che, si diceva tempo fa, non sembra verranno spostati in cantina; anche se il busto di Mussolini di cui tanto si era discusso sarebbe stato “esiliato” dalla sorella). Nell’intervista La Russa fa la sua storia e la storia del suo partito, il Movimento Sociale Italiano, soprattutto della citatissima, e mai compresa, svolta di Fiuggi del 1995, quando Gianfranco Fini dichiarò abbandonata qualsiasi simpatia per Salò, il suo capo e tutto il ventennio precedente. “Nel 1995 a Fiuggi facemmo i conti con il fascismo e fui tra i protagonisti di quella svolta. Ma il mio atteggiamento forse troppo benevolo verso il Ventennio era già mutato da tempo, fin dai 18 anni, dopo i miei studi all’estero dove avevo avuto amici di tutte le etnie e di tutte le religioni”. Le leggi razziali non le comprese finché non entrò in contatto con la comunità ebraica, dice, ma non fu quella l’esperienza davvero catartica. Almeno, dal modo di raccontarla è proprio la prima delle storie citate nell’intervista ad aver fatto la differenza. E c’entra uno storico saggio missino scarsamente valutato oggi, Pinuccio Tatarella: “Era il 1990, stavamo andando a San Gallo, in Svizzera, dove avevo studiato per 5 anni in collegio. E nel tragitto da Milano, proposi una piccola deviazione. Quel giorno l’associazione che si occupa delle onoranze ai caduti della Repubblica sociale — riconosciuta dal Comune di Milano — avrebbe deposto come tutti gli anni un mazzo di fiori nel luogo in cui era stato ucciso Benito Mussolini. Allora dissi a Pinuccio: ‘È solo a tre chilometri, vogliamo andarci?’. Non l’avessi mai detto. Tatarella si infuriò, perché a suo giudizio nella nostra comune volontà di costruire una destra pluralista, moderna ed europea, non c’era più spazio non solo per il fascismo ma anche per gesti che richiamassero il passato. ‘Ma portano solo dei fiori’, insistetti. E lui: ‘Non si capirebbe. Levatelo dalla testa”.
Arrivato a ricoprire la seconda carica dello Stato, Ignazio La Russa si racconta democratico, antirazzista e pluralista, ma non antifascista: “Non accetto di rispondere come una scimmietta ammaestrata”. È l'antifascismo di cui parla Renzo De Felice definiva (non Pasolini, non Sciascia), cioè l’eredità culturale più dura a morire del fascismo secondo lo storico citato dal presidente del senato: "Il mio giudizio sul fascismo ha come punto di riferimento lo storico antifascista Renzo De Felice, molto più attendibile di quanti oggi si improvvisano storici". La Russa ha anche condannato i gestacci di alcuni giovani di Gioventù nazionale – ribattezzati con totale spregio verso la logica più elementare “gioventù meloniana” – così come Tatarella condannò la sua necrofilia politica da fiori sulle tombe dei dittatori. Solo una manifestazione della doppia morale dell’Msi, poi Alleanza Nazionale, poi Fratelli d’Italia? Dire una cosa e intenderne un’altra. Vizio che i critici ascrivono ai partiti al governo.