“In mezzo alla gente e con la gente”. Scriveva proprio così Fanpage, nel comunicato stampa in cui si annunciava che “Gioventù meloniana”, il reportage mandato in onda da Corrado Formigli nella trasmissione Piazzapulita, avrebbe avuto un seguito, al Monk di Roma, “in mezzo alla gente e con la gente”, con la presenza “tra la gente” di Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, Roberto Saviano, Corrado Formigli e la storica e conduttrice televisiva Michela Ponzani. Ricordiamo che nel reportage, realizzato dall’unità investigativa Backstair (letteralmente: il sottoscala) del sito online, si scopre, come li percula amabilmente Dagospia, “che i giovani fascisti sono… fascisti”, ascoltano “musica identitaria”, si salutano dandosi non la mano ma il braccio come gladiatori, urlano “Sieg Heil” come se credessero di essere ariani (hanno i volti oscurati) e si dichiarano fascisti, cose che tutti dovrebbero già sapere se hanno incontrato in vita loro un militante di Gioventù Nazionale, associazione nazionale di Fratelli d’Italia, dalle cui fila viene Giorgia Meloni. Si tratta di una buona inchiesta che, a onor del vero, dice le stesse cose già pubblicate da Vanity Fair nel numero 22-23, in un reportage a firma di Alessia Arcolaci dal titolo “Universo neofascista in Italia: una mappa”, pubblicato online il 24 maggio. Ma non c’è dubbio che il “video” sia il linguaggio più popolare, che il montaggio di “Gioventù Meloniana” sia azzeccato, con le dichiarazioni di orgoglio e appartenenza del capo del governo italiano nei confronti dell’associazione giovanile di Fratelli d’Italia, dal quale Giorgia Meloni proviene (fu lei a inventarsi “Atreju”) e che si incontrano la sera per inneggiare alla ideologia nazifascista alla presenza di figure istituzionali del partito. È il secondo evento, quello “in presenza”, che sposta il piano dell’informazione su un altro livello, quello del marketing, soprattutto “in presenza” di quella frase “in mezzo alla gente, tra la gente”. Ricordiamo che “gente” è un lemma che reca in sé un significato che rimanda agli stessi valori romani e imperiali del fascismo: la “gentes” era un gruppo di famiglie che si riconosceva nel gruppo di un patrizio. Cancellato, Saviano, Formigli e Ponzani sono patrizi che scendono fra la loro “gentes”? È una riunione della “Gens Fanpage”, come quelle di “Gioventù Nazionale” sono riunioni della “Gens Meloni”?
Umberto Eco, a proposito del suo impegno politico, tirò fuori il concetto di “guerriglia semiologica”. Da studioso delle “interpretazioni” sosteneva che l’importanza del messaggio non sta nel contenuto della fonte ma nell’analisi di come esso viene recepito: è lo spettatore – o il fruitore dell’informazione, rectius: della narrazione dell’informazione – che fa il messaggio, non il “media” come sosteneva Marshall McLuhan. La formula per rendere la teoria di Eco efficace è la seguente: “Non serve occupare la televisione, bisogna occupare una sedia davanti a ogni televisore”. Eco voleva rendere lo spettatore consapevole e critico nei confronti dell’informazione. Verrebbe da dire, osservando l’informazione nell’epoca dei social (Eco la sfiorò e se ne allarmò all’istante), “ciao core”. Se Umberto Eco, da sincero democratico colto, era preoccupato del destino delle “masse”, qui sembra che ci si preoccupi di più della “gente”. Attenzione, “masse” potrebbe sembrare dispregiativo rispetto a “gente”, ma è l’esatto contrario: la “massa” è quell’insieme di persone che, per una serie di motivi e circostanze, non sono “consapevoli”, non hanno sviluppato un adeguato senso critico, e che in qualche maniera vanno “svegliate”; se ne sottolinea l’aspetto negativo per suggerire che bisogna porvi rimedio. La “gente” invece, come testimonia anche il comunicato di Fanpage, ha un’accezione positiva, come se la “gente” dovesse rimanere “gente”: il che fa orrore, per il significato stesso, appunto, della parola “gente”. Ma è questo che fa il marketing: spaccia per un privilegio una condizione di inferiorità. La “gente” “serve”, la si eleva al di sopra delle masse per farne servi di uno o più patrizi: ogni forma di aristocrazia politica abbisogna della “gente”, sulla quale fonda il proprio potere. Essa viene “diretta” e con la paura - la creazione di un nemico comune, spiegata una volta per tutte ne Le categorie del “politico” da Carl Schmitt, il costituzionalista che legittimò teoricamente molti aspetti del cancellierato di Hitler - e dal marketing sociale - come testimonia la propaganda sovietica e la scoperta dell’uso del design: la “gente” (ossia la “massa” dissimulata) sono guidate dall’emozione e non dalla ragione. Bene, cioè male. Nel loro infimo anche gli influencer fondano il loro potere sulla distinzione amico-nemico, fan e hater, e sul marketing: la comunicazione del “potere” è standardizzata. Per questo l’estetica del nuovo appuntamento di Fanpage ci sembra aderire alle forme del Potere e non a quelle dell’informazione e del risveglio delle coscienze, come era nell’intenzione di Umberto Eco e della sua guerriglia semiologica. Anzi, nel momento in cui l’inchiesta diventa evento, “festa” per così dire “dell’indignazione”, passa dalla testa alla pancia svalutando il concetto stesso di informazione. Il video del direttore Francesco Cancellato, che annunciava l’evento, lamentandosi del poco spazio dato dai giornali al loro reportage è un capolavoro di marketing. Il montaggio serratissimo e ritmato, gli stacchi di camera come pura metrica, la gestualità, l’incalzare del discorso, non lasciano alcuno spazio alla riflessione e per questo può passare il messaggio (falso) del “silenzio” che starebbe calando sul loro reportage assordante, che ha già avuto più di dieci milioni di spettatori. È questa parola “silenzio” che viene ripetuta con una cadenza “trapper” da Cancellato, che non comunica ma recita, canta. È questa parola, “silenzio”, che fa passare notizie fake come “silenzio su ‘niente braccia tese finché non se ne vanno i giornalisti’” che è invece un passaggio del reportage che non sembra sia passato sotto silenzio.
È la stessa, identica, teoria e pratica della supposta censura alla quale si appellano di volta in volta gli Antonio Scurati e i Saviano, che sgomitano invece in maniera molto rumorosa. Perché c’è bisogno di “condire” l’informazione con la “presenza”? Non ricordo chi, recentemente, ha detto: “Non importano più i libri ma il pensiero del loro autore”: e lo abbiamo visto al Salone del Libro di Torino dove a contare non erano i “testi” ma il “pensiero politico” degli autori. Fanpage, forse, vuol virare verso la televisione, che però, storicamente, “abbassa” il livello critico e dove non ci sono “dialoghi” ma “monologhi” moderati dal conduttore. La svalutazione della parola, dunque del giornalismo inteso come tale, si compie con “la presenza” che si sostituisce alla parola. È il modello Instagram: la foto in luogo del testo; la “presenza” in luogo dell’inchiesta video. Dalla parola, al video alla “presenza in mezzo alla gente, tra la gente”; via via si perde il contatto con l’informazione, con il reportage, con la notizia, con l’approfondimento (no, non si può approfondire in video e neanche in presenza, l’unica maniera di approfondire è la scrittura) e ci si avvicina al marketing della personalità, dove l’autore si sostituisce al suo stesso pezzo. È il culto della personalità in luogo del risveglio delle coscienze. O no? Questa faccenda risveglia coscienze o semplicemente infiamma la classe media riflessiva (riflessiva?) come in un concerto trap o rap? Perché il “live” prende il posto della parola scritta? Sappiamo che è la musica che arriva allo spettatore in maniera irriflessa, conosciamo le dinamiche dei concerti. Queste dinamiche irriflesse non minano forse la riflessione? Da pensatori critici – come li voleva Umberto Eco – non si trasforma così la platea in fan? In tifoserie? Leggevo, credo a proposito di Opera senza nome, l’ultimo libro postumo di Roberto Calasso, di qualcuno che diceva: “Ma tu ti immagini Kafka che andava a presentare un suo libro?”. Sì, stiamo approfittando di questa seconda puntata live dell’inchiesta di Fanpage per parlare di tutt’altro: dello stato del giornalismo e quindi della parola, in tempi di autofiction, di storytelling, di video, di reel, dove, nella fatica di emergere nell’inferno di sovrainformazione si rischia di perdere per strada la parola per sostituirla con il suono (per la trasformazione della parola in “musica”, con perdita dell’intelletto, rimandiamo a Manlio Sgalambro in Contro la musica e La consolazione). Cosa porta questi giovani a inneggiare a una dittatura? Come si può “amare” Benito Mussolini? Come si può rinunciare alla propria identità in nome di un’identità collettiva? Di cosa hanno paura? Cosa odiano? Perché si sono ridotti così? Sono queste le domande che si sarebbero poste le inchieste e i reportage televisivi di una volta, che avevano tutto il tempo di questo mondo, che volevano comprendere i fenomeni cercando di raccontarli oltre la facciata. Oggi basta la facciata a garantire una reazione. Siamo di fronte all’ennesima creazione del modello amico/nemico e della lamentazione vittimistica, che è la stessa di Hitler – la lamentazione per la sconfitta durante la Prima guerra mondiale che portò dritti nella seconda. Così l’evento live di Fanpage, pur nelle migliori intenzioni che non discutiamo (non mettiamo in dubbio né la qualità del lavoro né la buona fede), sa di distinzione tra fan e hater, di marketing. Alla fine della fiera ognuno resterà delle proprie convinzioni: i giovani fascisti un po’ più fascisti e la classe media riflessiva un po’ meno riflessiva. Probabilmente la guerriglia semiologica di Umberto Eco ha perso miseramente. Il pensiero è finito. Resta soltanto la sua manifestazione. Come una eco perduta di un’epoca che chiamammo civiltà. (E che a dirla tutta non è mai stata tutta questa gran cosa).