“Vannacci è un uomo amato dai cittadini e scomodo al palazzo”. La dichiarazione, battuta dalle agenzie di stampa in seguito all’esclusiva del Corriere della Sera sull’informativa per truffa e peculato a carico del generale, è attribuita a non meglio precisate fonti vicine alla Lega. Scattare in difesa dell’autore de “Il mondo al contrario”, del resto, è d’obbligo, da parte del Carroccio: la sua candidatura nelle liste leghiste alle elezioni europee è data per fatta. Matteo Salvini lo vorrebbe addirittura capolista in tutti i collegi (con grande scorno della sua stessa nomenclatura di partito, per altro). C’è solo il piccolo particolare, che il “palazzo” rispetto al quale Roberto Vannacci sarebbe scomodo è occupato oggi da un governo di cui la Lega fa parte, e di cui è ministro quel Guido Crosetto, di Fratelli d’Italia, responsabile del dicastero della difesa da cui l’alto ufficiale dipende. Sarà mica, di preciso, il suo, il palazzo a cui fanno riferimento i leghisti? Certo che andare a fare proprio adesso le pulci ai rimborsi spese per familiari, cene e auto di servizio nel periodo in cui fu addetto militare all’ambasciata a Mosca, fra il 2021 e il 2022, un lecito dubbio lo farebbe venire a chiunque. E quindi, a sua volta, legittima il sospetto che il procedimento presso la procura militare possa offrirsi come pedina nella rivalità in atto, alla luce del sole, fra i partiti alleati che si contendono il voto del centrodestra. Non è un mistero per nessuno, difatti, che quello di Salvini parte sfavoritissimo, persino nei confronti di Forza Italia che non può più nemmeno sfoderare il santino elettorale Berlusconi. Esattamente per questo motivo Vannacci, con il suo potenziale di consensi, è tanto importante per la Lega: per contenere, quanto meno, i danni.
Ci si potrebbe anche chiedere quale sia, invece, la strategia personale del militare da 200 mila e rotte copie. In questi mesi, dopo l’uscita a settembre del suo bestseller, Vannacci ha tessuto con costanza una tela fatta di conferenze sparse in tutta Italia in cui ha firmato volumi, stretto mani, elettrizzato un folto numero di elettori del campo di destra, più o meno estrema, ma di certo non riconducibile alle ristrette frange comunemente definite neofasciste. Per questo dà un certo fastidio al partito di Giorgia Meloni, che gradirebbe non avere concorrenti significativi alla sua destra. Salvini, invece, sta puntando proprio su quello spazio, per raschiare il raschiabile differenziandosi ove possibile dall’azionista di maggioranza. Di qui l’alzare i toni, il controcanto sui più disparati temi (dal distinguo su Navalny alla divisione sul terzo mandato), perfino il recupero di bandierine usa e getta come l’intolleranza indiscriminata sulle droghe. Vannacci da solo apporterebbe, presumibilmente, qualche centinaio di migliaia di preferenze che fanno oltremodo gola. Lui ci guadagnerebbe un posto sicuro al parlamento europeo, che vuol dire un incarico lautamente remunerato, con la possibilità di intrecciare relazioni internazionali e, soprattutto, una comodissima tranquillità, lassù nei palazzi di Strasburgo e Bruxelles, dove politicamente non si rischia nulla, potendo contare in ogni caso su una tribuna da cui esternare a piacimento. Per il diretto interessato, dunque, un risultato netto e blindato. E per la Lega, al di là del bottino alle urne, una sistemazione che lo rende sostanzialmente innocuo, confinato come sarebbe a una distanza di tutta sicurezza dai giochi veri, che si fanno a Roma.
Ma se c’è un lato del carattere di Vannacci che è emerso fulgido, in questa sua ascesa alla notorietà, quello è la furbizia (da non confondere mai, mi raccomando, con l’astuzia). Basta analizzare un minimo la dinamica tipica delle sue uscite: la spara più o meno grossa, pescando dal repertorio di luoghi comuni della destra profonda di cui è zeppo il suo libro, dopodiché, subissato dalle reazioni critiche e dai sarcasmi facili, provvede immancabilmente a puntualizzare minimizzando o facendo passare le sue idee come niente più che constatazioni, dati statistici, verità banali. E il tutto sempre con piglio pacato, come se stesse spiegando la più ovvia delle considerazioni. Che sia un talento naturale o una tecnica appresa da qualcuno, fatto sta che non si ha di fronte un esagitato, una macchietta stile “Vogliamo i colonnelli”, ma un comunicatore dotato di una certa abilità. Un reazionario di idee piccolo borghesi dai modi ostentatamente borghesi. Uno, cioè, che potrebbe capitalizzare il tesoretto di simpatie popolari ben altrimenti che finire parcheggiato in Europa. Con un po’ di fantapolitica, se riuscisse a navigare tenendo bene la rotta, non sciupandosi nel frattempo, potrebbe anche ambire a succedere a Crosetto, in un secondo governo Meloni all’indomani di una vittoria di conferma alle prossime politiche. O almeno, a ritagliarsi una posizione di forza tale da chiedere poi in cambio un più incisivo ruolo a Roma.
Detto semplice: ma chi glielo fa fare, a Vannacci, di scegliere la strada, più confortevole ma meno ambiziosa, di uno scranno da eurodeputato? Vorrebbe dire che in realtà, appunto, la sua ambizione si ferma ad accaparrarsi una postazione non di prima linea, con il tappeto rosso srotolato, e senza il fragore della vera battaglia. Il generale plurimedagliato per meriti sul campo che preferisce le retrovie al fronte? Che delusione. Vannacci, a tutt’oggi, fatte le debite proporzioni, è la Chiara Ferragni di destra: ha dietro di sé folle di follower adoranti che lo voteranno a prescindere (anche di inchieste su spesucce diplomatiche). Ma come per la Ferragni, più che le lenti di ingrandimento della magistratura dovrebbe guardarsi dall’effetto logorante che l’abitudine, una volta integrati nel mainstream, determina nelle masse: un senso di saturazione, di stanchezza, di ripetitività. Ce lo vediamo già, di tanto in tanto, comparire sui tg sillabando una vannacciata delle sue, con il sottopancia da “parlamentare europeo della Lega”, percepito come lo scandaletto politico di giornata, o se va bene, la nota di colore in fondo al “panino”. Tutto qui, l’afflato controcorrente dell’uomo che osò sfidare il politicamente corretto (contrapponendogli un politicamente corretto alla rovescia, solo che retrodatato di cinquant’anni, quando in Italia già un certo Pasolini si puliva le scarpe con certe piccinerie da borghese piccolo piccolo)? Sarebbe questo, il coraggio della pugna? Un collocamento prenotato nelle sacre stanze dell’Unione Europea? Dov’è l’odore acre della trincea, l’orgoglio del cimento, il cuore gettato oltre l’ostacolo? Ah, signor generale già al comando del reparto d’assalto Col Moschin, la credevamo più ardito. Il motto originale non era “a noi”? Qua, con rispetto parlando, ci sembra più si tratti dell’immortale, ma poco marziale, “a soreta”.