Altro che Europa. Altro che Stati Uniti. Altro che Occidente, almeno politicamente inteso come luogo elettivo della democrazia sulla Terra. L’Italia corre il rischio di trasformarsi in una Singapore moltiplicata per mille. Singapore what?, si domanderà il lettore. Secondo Angelo D’Orsi, che guarda in prospettiva essendo uno storico, in particolare allievo di Norberto Bobbio e studioso di Antonio Gramsci, nel vuoto di pensiero ma ormai anche di aspirazioni ideali della società italiana, appartenente alla famiglia occidentale, l’orizzonte possibile si fa inquietante, e assume i contorni del piccolo Stato del Sud-est asiatico, caratterizzato da benessere diffuso, altissima efficienza tecnologica, sicurezza garantita, ma una penosa mancanza di dibattito pubblico e di conflitti sociali. Praticamente, come vivere nel migliore dei peggiori mondi possibili. E non solo per colpa della destra al governo con Giorgia Meloni, ma anche della sinistra, che ha dimenticato la sua ragion d’essere, la lotta all’uguaglianza, per conformarsi a una “libertà” ambigua e sospetta. Una sinistra, di cui D’Orsi fa parte (alle ultime politiche si è candidato da indipendente nelle liste di Unione Popolare, la formazione capitanata da Luigi De Magistris), che è culturalmente impreparata e, come sul caso di Patrick Zaki, lo studente di Bologna detenuto nelle galere egiziane, si limita a discorsi genericamente umanitari che in realtà suggellano una spietata dittatura, quella di Al-Sisi. Insomma, l’avvenire è tutt’altro all’insegna del progresso.
Professor D’Orsi, domenica lei ha scritto un corsivo sul Fatto Quotidiano in cui ha puntato il dito contro l’“amnesia” degli attivisti ecologici sulla causa che genera il riscaldamento climatico: il capitalismo. Carola Rackete, la volontaria delle ong per migranti che anni fa si era scontrata direttamente con Salvini, si candida alle europee per fare, dice, da “cane da guardia”. Greta Thunberg lancia periodicamente i suoi allarmi. I Fridays For Futures e Extinction Rebellion, a cui si rifanno i dimostranti che gettano vernice su dipinti e monumenti, sostengono invece di essere anti-capitalisti. Non è che il problema di fondo sia scambiare la comunicazione con la politica, complici i media? O sono proprio contestatori funzionali al sistema?
Fatta salva la buonafede e apprezzando la buona volontà di chi si mette in gioco e dedica energia e tempo, rischiando anche le denunce e qualche pestaggio, credo che questo tipo di contestazione non serva né a sensibilizzare, né a impensierire il potere. Viene tranquillamente riassorbita, anzi, proprio per le sue modalità tutte giocate sull’esteriorità, rischia addirittura di essere controproducente. Perché viene banalizzata. Chi fa questo tipo di azioni dimostrative viene accusato, per altro ingiustamente, di essere un teppista, un luddista, un barbaro.
Ma, ripeto, la questione è di sola, più o meno discutibile modalità comunicativa, o riflette un limite politico e di pensiero?
Sì, riflette un limite politico e di pensiero, perché l’esteriorità sembra tradurre una carenza di… interiorità, cioè di analisi. Questo testimonia un ritardo di tutta la sinistra su questo che è il tema dei temi. Quando negli Stati Uniti nacque un movimento, Occupy Wall Street, che invece tentava di collegare il problema ambientale con la lotta al capitalismo distruggitore, non ha avuto grande stampa all’interno della sinistra.
Forse perché la sinistra si è convertita al capitalismo, no?
Certamente. Ma anche nella sinistra radicale si è fatto fatica a capire le connessioni fra critica al capitalismo e lotta ambientale, e questo valeva anche nel discorso critico sulla guerra. Quando si parlò di eco-pacifismo, ad esempio, anche quello non venne molto compreso e apprezzato. Diciamo che c’è una disattenzione generale al tema dell’ambiente, e perciò poi le Grete trovano facilmente le porte spalancate. Ma la sinistra in generale, via via illanguidita fino a scomparire, e anche quella radicale hanno faticato molto a recepire queste tematiche, sempre considerate marginali.
Lei ha riscontrato questi limiti anche in Unione Popolare, per cui si è candidato?
Anche in Unione Popolare, in cui ero candidato indipendente, e nella sinistra diciamo radicale, c’è una nuova attenzione. Però c’è un ritardo di decenni da recuperare. Infatti c’è una rincorsa affannosa, della serie “cosa mi manca in casa per fare il risotto? Mi mancano i funghi”. Ci sono i giovani che stanno occupando spazi sguarniti, ma sembra quasi un ragionamento elettoralistico.
Le domando: è possibile, un’inversione di atteggiamento e tendenza? O oramai nessuno studia più, e fine?
Intanto, lo noto anche in Unione Popolare e generalmente nella sinistra radicale, una grave carenza di cultura politica. Ma ancora più in generale, noto una carenza di cultura. Cito spesso una frase di Rosa Luxenburg, che diceva che la sinistra, se vuole ottenere risultati, deve anzitutto studiare. Un messaggio poi ripreso da Gramsci: “concepisco tutte le libertà fuorchè quella di essere ignoranti”. Solo il borghese, il ricco, il potente può permettersi il lusso dell’ignoranza. Chi vuole parlare in nome dei poveri, degli “umiliati e offesi”, oggi deve raddoppiare gli sforzi conoscitivi e di studio. Studiare, studiare, studiare. Non a caso all’inizio della pubblicazione dell’Ordine Nuovo, il settimanale fondato nel 1919, Gramsci mise la frase “istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.
Oggi sul Corriere della Sera la segretaria del Pd, Elly Schlein, ha ripetuto che sta lavorando per dare al Partito Democratico una identità “chiara”, e cita salario minimo, sanità pubblica, Pnrr. Intanto, però, il Pd non ha nemmeno partecipato al voto, giusto ieri, su una mozione riguardo l’utero in affitto, perché diviso, causa componente cattolica contraria. Che idea si è fatto del Pd della Schlein finora, ammesso e non concesso si possa parlare di un Pd della Schlein?
Innanzitutto, insisterei sul “non concesso”. Al di là del giudizio su di lei, la Schlein non controlla affatto il partito. Lo abbiamo visto fin dalle primarie, che sono davvero una cosa demenziale. Chissà cosa direbbe un Pajetta di un gioco come le primarie in cui un passante dando due euro decide il destino di un partito. Non ha nessun senso. In secondo luogo, la sua linea nella sostanza non è diversa da quella di Bonaccini o degli altri. Lei appartiene a un filone direi borghese, e sta dimostrando una volta di più l’involuzione della sinistra, che subordina tutte le questioni fondamentali, che sono legate ai diritti sociali, concentrandosi sui diritti civili. Perfino Matteo Renzi da segretario del Pd era su questa linea. Sui diritti civili si trovano consensi, qualcuno direbbe con pigrizia, trasversali. Anche uno di Forza Italia può essere d’accordo. Le grandi battaglie, quindi, sono andare in piazza, ai cortei…
Anche dei sindacati.
Sì, ma sono tutte esteriorizzazioni della lotta dietro le quali c’è il vuoto. Sotto il vestito niente. I diritti sociali non possono sostituire i diritti civili.
La Schlein replicherebbe che diritti civili e diritti sociali vanno insieme.
Non dico di trascurare i diritti civili, ma il fatto è che così si parla a un’opinione pubblica genericamente progressista che su questa tematica ci sta. È un discorso, anche qui, elettoralistico.
E mediatico.
Ma certo, è chiaro che su questo è d’accordo pure il Corriere e pure il Sole 24 Ore. Ma poi i contrasti emergono sui diritti sociali. La ex sinistra raggrumata nel Pd ha finito con l’adottare la stessa linea della Confindustria, dei poteri forti, del finanzcapitalismo.
Chiariamo bene la distinzione fra diritti civili e sociali? Quelli sociali vedono il cittadino anzitutto come lavoratore, è corretto?
Il cittadino viene inteso come uomo o donna a parte intera, un essere umano che ha il diritto di godere di una serie di garanzia per appartenere a una collettività. Danilo Zolo parlava di “modello Singapore”, un posto in cui la produttività è altissima, lo sfruttamento è altissimo, ma ci sono, diciamo, luci brillanti che non permettono di vedere non dirò la schiavitù, ma la servitù, sì. Il servo è uno schiavo senza catene. Ci sono parti del mondo in cui ci sono ancora schiavi con le catene, ma non possiamo dimenticarci che da noi esistono esseri umani che raccolgono i pomodori a 2 euro e 50 all’ora sotto il sole, e che muoiono, e che sono dimenticati perché tanto non sono italiani.
Traduco in modo efferato: sta bene il matrimonio gay, ma se poi ci sono lavoratori che vengono spremuti, resiste la precarietà e trionfano sproporzioni gigantesche fra ricchi e poveri, allora battersi, per esempio, per i diritti degli omosessuali rischia di essere fatto a spese di questioni più dirimenti?
Non può essere la bandiera della sinistra. Io non ci sputo, ma la bandiera deve essere il sovvertimento dell’ordine in cui avviene lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Banalmente, direi. Almeno bisognerebbe combattere per ridurre le disuguaglianze. Il mio maestro, Norberto Bobbio, diceva che la democrazia è un sistema che lavora per la progressiva riduzione delle disuguaglianze, e Bobbio non era socialista né comunista, era un liberaldemocratico. Lo stesso Tocqueville, che era un aristocratico, parlando della rivoluzione democratica in America, metteva in guardia dalla “libertà”. Ecco, io quando sento parlare di libertà, non dico che metto la mano alla pistola, ma so che c’è sotto un trucco, perché parlare di libertà senza parlare di uguaglianza può portare ad accettare la libertà di sfruttamento.
Insisto: a sinistra si sostiene che le due cose, libertà e uguaglianza, possano andare di pari passo. Dov’è sta il punto di crisi? Nella priorità da dare all’una piuttosto che all’altra?
A costo di suscitarmi tutte le ire possibili, la mia risposta è radicale: al primo posto vengono i diritti sociali. Non si può dire una cosa e l’altra, prima viene la lotta allo sfruttamento, prima viene l’uguaglianza.
Una delle notizie di giornata è la nuova incarcerazione di Patrick Zaki. Sia la Meloni che la Schlein sostengono che la via unica possibile sia chiedere la grazia. Non c’è una grande ipocrisia su questo caso, visto che l’Egitto e il suo regime è geopoliticamente così importante, anche per noi?
Ancora Bobbio diceva che la politica degli Stati non si regge sui paternoster. Nel caso specifico, quando in Egitto c’è stato il colpo di stato, un colpo di stato cruento, l’Occidente ha taciuto. E anzi, sotto sotto s’è sfregato le mani, perché ha visto in Al-Sisi ha visto qualcuno con cui combattere l’islamismo radicale e con il quale fare affari. Oggi in Egitto c’è una feroce dittatura, di tipo argentino, in cui accadono cose raccapriccianti, migliaia di persone che spariscono, arrestate senza motivazione. Mi faceva ridere Draghi quando chiamava il turco Erdogan autocrate: in Egitto c’è una situazione assai peggiore, ma molto peggiore. Quello è un regime fascistoide, volendo usare questo termine improprio ma che rende l’idea. Chiedere la grazia è un errore politico, perché significa che quello di Zaki è un singolo caso su cui io ti chiedo di essere clemente, facciamo un’eccezione perché è un bravo ragazzo, che ha studiato nella più antica università del mondo, eccetera. Ma ciò significa accettare la logica del tiranno.
L’altra notizia del giorno è la mancata presenza della Meloni alla fiaccolata in memoria di Paolo Borsellino, ufficialmente per motivi di ordine pubblico, in realtà per timore di anti-estetiche contestazioni. Ma dov’è finita la destra legalitaria e sociale, in Italia?
In realtà, sia l’elemento di socialità che l’elemento di giustizia erano una vernice ideologica. La sostanza è rimasta sempre la stessa: il malaffare, la corruzione. Fratelli d’Italia è il partito con il maggior numero di inquisiti in Italia. Alcuni dei suoi massimi dirigenti sono pieni di guai, dalla Santanché in avanti. Quegli elementi erano pitturazioni per differenziarsi all’interno prima del Movimento Sociale, poi in Alleanza Nazionale e così via, in modo da creare correnti ognuno con il suo capo, il suo gerarca. Pensiamo a Gianni Alemanno, che era uno dei leader della destra sociale: da sindaco di Roma ha fatto dei disastri inenarrabili. Appena è arrivato al potere ha messo subito i suoi famigli, e lo stesso ha fatto la Meloni, addirittura mettendoli al governo. Ma in quale Paese del mondo un capo del governo mette il cognato a guidare un ministero? E i liberali, dove sono finiti? La rivoluzione liberale che doveva fare Berlusconi? Un liberale dovrebbe resistere “a testuggine”, come diceva Gaetano Salvemini. Se fosse liberale, ovviamente. Ma questi non sono liberali.
Non concede nemmeno la buona fede, ai missini di una volta e a tutti coloro che a destra, anche oggi, sono legati a un’idea di giustizia, sociale e legale?
Bisogna distinguere le masse dalle élites. Fra le prime sicuramente c’erano e ci sono coloro, quelli che hanno votato la Meloni, che sono certamente in buona fede con un empito genuino di giustizia sociale, ma fra le seconde questo viene usato per urlare, per contestare e basta, in una gara a chi urla di più. La Meloni è un’urlatrice, una venditrice al mercato. Questo ha successo negli ambiti popolari. Ma quelli che dicono “basta, basta, basta” rifiutano in realtà lo Stato, in una forma di anarchismo, salvo sfruttare lo Stato quando fa comodo. Lo Stato è nemico quando chiede di pagare le tasse, però poi tutti a intasare i pronto soccorso per un raffreddore.
Prima citava Daniela Santanché, che dovrà sottoporsi a un voto di sfiducia per i suoi guai giudiziari che probabilmente non sortirà le dimissioni sperate dalle opposizioni. Ma al di là di questo, da storico, se le suggerisco che il santanchismo, il briatorismo, o se si vuole il berlusconismo senza nemmeno più la simpatia umana, ancorchè volgare, del vecchio Silvio, sono il senso comune, l’ideologia vera dell’Italia profonda che vota a destra, ci sto prendendo?
Non c’è dubbio che la destra ha vinto perché ha saputo esercitare un’egemonia che crea senso comune. Ma volendo inquadrare storicamente la questione, anzitutto va detto che l’egemonia in Italia è sempre stata del mondo cattolico, smettiamola di parlare di egemonia della sinistra. Ma manco per niente. Dopodiché c’è stata un’egemonia berlusconiana, perché Berlusconi ha saputo coniugare il tradizionalismo cattolico, il rampantismo postmoderno e il sessismo maschilista, sotto l’insegna della modernità. Ora siamo passati a una fase ulteriore, in cui le Santanché e i Briatore sono stati preparati da Berlusconi, il che dimostra che il berlusconismo è vivo anche se Berlusconi è morto. E sarà molto lungo e difficile liberarsene. Sul piano politico l’unica riforma berlusconiana davvero andata in porto è stata la riforma Gelmini della scuola, che ha fatto più danni alla scuola di tutti i ministri che l’hanno preceduta nella storia d’Italia. E i governi di centrosinistra l’hanno mantenuta.
Ma che differenza, che salto c’è fra il briator-santanchismo e il berlusconismo d’antan?
Una forma di degrado culturale e morale ulteriore, per cui quasi viene da dire che stavamo meglio quando stavamo peggio. Simpatia e barzellettismo a parte, Berlusconi era in grado anche di dire alcune cose sensate.
Me ne dice una?
In politica estera, nei rapporti con la Russia, o con la Libia di Gheddafi. In Berlusconi c’era ancora un elemento di politica. Qui c’è solo malaffare e turpiloquio. Non c’è nient’altro. Con l’impudenza e l’arroganza di chi si sente al di sopra della legge, secondo la famosa battuta “io sono io, e voi non siete un cazzo”. Ma il sistema liberale, prima ancora che democratico, venne concepito proprio per evitare che qualcuno potesse sentirsi al di sopra della legge.
Tirando le somme: i liberali non esistono più, i socialisti nel senso autentico del termine nemmeno, che cosa ci rimane?
Rimane una società spappolata, con una grande disgregazione sociale, in cui tutto può accadere. In questa sorta di penombra indistinta potrebbero nascere i mostri, direbbe Gramsci. Non solo i mostri alla Santanchè, ma i mostri alla Al-Sisi. Ci possiamo aspettare di tutto. In più, da una parte l’uguaglianza non è più un obbiettivo da perseguire neanche a sinistra, dall’altra, perfino gli spazi di libertà stanno venendo ridotti, con un liberalismo che sta fagocitando sé stesso. A questo punto, cosa rimane? Il modello Singapore.