Piero Fassino, con quel suo fisico segaligno, è vocato per natura a fare il parafulmine. Con quella sua attitudine all’involontaria autoironia che ce lo ha fatto amare in passato (“Beppe Grillo si faccia un partito, vediamo quanti voti prende”), egli non teme il pubblico ludibrio e si lancia in candide uscite di sicuro effetto impopolare. Sventagliare, come ha fatto ieri in aula, il cedolino dell’indennità da deputato di “soli” 4718 euro netti mensili, è stata una mossa di raro coraggio. Sissignori, perché Fassino ha avuto l’audacia di dire quel che tutti gli altri parlamentari non osano ammettere in pubblico, ma che pensano, eccome se pensano, in privato, quando fanno comunella alla buvette: e cioè che quei quasi 5 mila euro, a cui vanno aggiunti ogni mese 3500 di diaria, 3700 di rimborsi spese, oltre 3 mila netti di rimborsi viaggio e 1200 annui per le spese telefoniche, secondo loro sono anzi pochi. E in teoria lo sarebbero anche per un cittadino ragionante e non emotivo, se non fosse per due fatterelli che è il caso di ricordare. Non tanto a Fassino, che per la sua sfacciata assenza di pudore continuiamo a preferire ai sepolcri imbiancati seduti attorno a lui. Ma agli indignati a molla, agli incazzati permanenti, agli esasperati, legittimamente esasperati, da una “casta” di politici che si assegna da sola compensi, prebende e vitalizi e che però, attenzione, o viene poi regolarmente votata e dunque legittimata, o viene lasciata fare, mediante quell’arma spuntata e consolatoria che è l’astensione di massa, ultimo rifugio di chi non ha più fiducia in niente e nessuno.
Il primo fatto, incontestabile, è la solita storia del dito e della luna. Mentre quaggiù nel popolino, e sugli spalti dei social, si scagliano insulti e sarcasmi all’indirizzo del Fassino offertosi nel ruolo di capro espiatorio, l’Italia continua a furoreggiare come Paese in cui gli stipendi dei lavoratori negli ultimi trent’anni sono cresciuti di meno in Europa, con un’attuale forbice fra i 1250 e i 1700 euro lordi al mese. Se si tiene conto che l’affitto medio mensile, secondo uno studio Uil dell’anno scorso, è di più di 500 euro, che schizza a valori doppi e tripli nelle grandi città, e ci aggiungiamo l’inflazione, questa sanguisuga incontrollabile, che solo a giugno ha visto aumentare del 10% il prezzo della spesa alimentare, ci si fa un’idea di cosa voglia dire povertà relativa. Relativa all’indecenza di dover lavorare non per assicurarsi un reddito dignitoso di cui vivere, ma il sostentamento semi-indigente per limitarsi a sopravvivere. Gli ultimi dati Istat sono agghiaccianti: nel 2021 quasi 2 milioni di famiglie, il 75% del totale, e 1,9 milioni di individui (9,4%), molti dei quali soli, fra anziani e i single che ormai sono uno sterminio, tirava avanti con meno di 800 euro. Per forza dilaga il lavoro nero. E sia sempre benedetto il paracute del “welfare familiare”, ossia poter contare su pensioni e paghe di nonni e genitori che, beati loro, hanno goduto di un’Italia in cui l’economia girava e lo Stato sociale, pur con tutte le sue groviere da rendita e spreco in puro stile Prima Repubblica, non era ancora considerato il demonio in Terra. Non per caso la segretaria del Partito Democratico, la per altro impercettibile Elly Schlein, ha rintuzzato il vecchio Piero sottolineando che lei e compagni sono strenuamente impegnati nella battaglia per il salario minimo. Peccato che a 9 euro lordi l’ora, è così minimo che potrebbero chiamarlo direttamente minimale. Senza contare che, ammesso e assolutamente non concesso vedesse mai la luce, se privo di misure altrettanto obbligate, a cominciare dal porre fine all’anarchia contrattuale e alla precarietà, mina di base per qualsiasi progetto esistenziale, agitare la bandierina del salario minimo equivale, anche qui, a fissarsi sul dito anziché aprire gli occhi su tutto quello che ci sta dietro.
Il secondo fatto, anch’esso storicamente incontrovertibile, è il fallimento totale della guerra alla cosiddetta “Casta”. Ve li ricordate, no?, i libri di Gian Antonio Stella e Marco Rizzo, il battage quotidiano del blog di Beppe Grillo alle sue gloriose origini, le piazze televisive da cui saliva l’onda, sia chiaro genuina, dell’odio di popolo verso i feudatari del parlamento, gli unti dai signori delle tessere, i beneficiati della partitocrazia che “rubavano” lo stipendio alla faccia della “sana” società civile, dell’Italia che “produce”, della “gente che lavora”? Non è che avessero torto, i paladini dell’“onestà” che assediavano il Palazzo marcio e corrotto. Il livello della classe politica è quel che è, e in linea con il generale analfabetismo di ritorno è sempre più scaduto, fra l’altro polverizzandosi in partitini e partitucoli che non hanno neanche più la maschera delle vecchie ideologie, a coprire la vergogna di ridursi a semplici comitati elettorali e d’affari. Il problema è che i No Casta concentravano il mirino soltanto sull’ultimo anello della catena di comando, commettendo il gravissimo atto d’omissione di parlare non a sufficienza, anzi di non parlare proprio (eccezion fatta proprio per il Grillo descamisado degli albori, ma solo degli albori) di tutte le altre caste, corporative tal quali, e molto più dannose: dalla camarilla bancaria agli ordini professionali di stampo medievale, per tacere dell’alta finanza che, con i suoi volumi sovrumani di miliardi spostati in pochi secondi sulla testa dei comuni mortali, se la ride della grossa dei 5 mila euro di Fassino.
Ebbene, tutto quel can can di anni e anni, che ha fatto la fortuna del Movimento 5 Stelle (che comprensibilmente l’ha cavalcato fermandosi però lì, per ignoranza, malafede e paura, miscela suicida), è stata una guerra persa, strapersa. Per un motivo banalissimo: l’italiano non diciamo medio, diciamo pure mediocre, è sempre pronto alla rabbia pavloviana quando sente snocciolare le cifre incamerate da chi viene eletto, con lui votante o astenuto, a Roma, ma gli difetta la volontà di battersi e sbattersi sul serio. Un po’ perché sviato dalle truppe di distrazione di massa che sono i media di regime, che ne tarpano la coscienza sociale e così ognuno, nel suo bozzolo solitario, o se va bene nella sua cerchia associativa, deve fabbricarsene una (sempre lode sia all’italiano nient’affatto medio, consapevole, impegnato da qualche parte, roccioso e non rassegnato, che pure esiste). E un po’ perché, confessiamocelo dai, ad agire sotto traccia, quando scatta l’indignazione automatica, è l’invidia, un po’ spregevole ma umanissima invidia. Che è la stessa radice del risentimento per i percettori, ormai in parecchi casi ex, del reddito di cittadinanza. Meniamo un’esistenza, sempre nella media, così frustrante, lavorando molto per tornarci in tasca così poco, e siamo, ripeto nella media, talmente condizionati dal mito della ricchezza per “merito”, un merito che spesso non c’è (il versante negativo del familismo soccorritore è la sua amoralità mafiosa, il “tengo famiglia”, con certi giovani sì rampanti, certo, grazie ai fondi del papi, per non parlare degli aiutini e aiutoni di Stato a sedicenti imprenditori self made men), che appena qualcuno prende un euro pubblico, non importa se ben motivato o no, usciamo le zanne e gli artigli. Perciò, cari indignados, non sbagliate, no, a irritarvi per il Fassino d’occasione. Sbagliate a non accorgervi del resto, colpevolmente perché di prove ne avete ormai a josa, non ultima proprio la sconfitta della rivolta anti-casta. E nel resto, va messo perfino l’obbrobrio dei vitalizi, che vengono sì calmierati, ma non tolti, come invece sarebbe sacrosanto perché non siamo più nell’Otto-Novecento e non hanno più alcuna ragion d’essere. Vi fate venire il calor bianco per l’assegno mensile dei nostri “rappresentanti”, ma invece il vitalizio quello no, quello va bene. E ti credo: sotto sotto, la sogniamo tutti una bella paghetta a vita dopo appena qualche anno di servizio. Ipocrisia, portami via.