Signore e signori, credo di essermi beccato una alainelkannite acuta. E credo, non poteva che essere così, di essermela beccata in treno, forse proprio all’altezza di Foggia. Altro che Covid. È che di colpo ho cominciato a guardare a gesti semplicemente quotidiani, o semplicemente quotidiani per la vita di tutti gli altri, magari non sempre per la mia, come fossero oggetti esotici, finendo per ritrovarmi a raccontarli manco fossi finito a scappare in bicicletta dalla tromba d’aria che ha devastato il Burning Man Festival, presumibilmente andando a fare la fine di Jovanotti, e non sto certo parlando del bere caffè con dentro due panetti piccoli di burro. Così, siccome ho avuto un impegno di lavoro a Matera, e al ritorno non si è trovato un posto in aereo, dovendo passare qualcosa come mezza giornata in treno, toh, un treno!, eccomi qui a raccontare il viaggio della speranza, pronto a sfoderare citazioni di Marc Augé affiancate a un qualche verso degli Wilco, tanto per stemperarne le banalità, e perché, in fondo, l’alainelkanite non mi ha ancora sopraffatto del tutto.
Quando l’altro giorno l’organizzatore dell’evento che mi ha portato in Basilicata, comunicandomi che al ritorno avrei preso un treno da Bari, che tecnicamente era già a un’ora di macchina da Matera, mi ha detto che gli orari erano “partenza ore 11:18, arrivo ore 15:35” ho per un attimo sorriso. Perché se avessi preso, come all’andata l’aereo, e prendi lo shuttle per l’aeroporto di Malpensa, circa un’ora di viaggio da Stazione Centrale, sì, sempre Stazione Centrale, e poi aspetta un’ora e passa lì, spendendo qualche decina di euro per bere caffè e mangiare un croissant, magari griffato, a quando un reportage su Malpensa?, e poi vola e poi arriva e poi ti vengono a prendere e poi il viaggio in van fino a Matera, ci avevo messo circa sei ore, quattro ore scarse, toh, cinque compreso il trasferimento in van, senza dover star lì a correre per i tapis roulant, mangiare croissant a prezzi esorbitanti e tutto il resto mi era sembrato un affare. Peccato che poi mi è venuto in mente che Bari e Milano distano oltre ottocento chilometri, e per quanto ora, almeno da Bologna, in teoria i treni vadano più veloci, sempre ottocento chilometri sono. Cosa che ho fatto sommessamente notare, sentendomi rispondere, “Ah, no, è vero, il treno arriva alle 18:55, ma conviene sempre, rispetto all’aereo, perché tra una cosa e l’altra ci metti di meno”. Come Margherita Vicario ho fatto il classico, quindi non ho dedicato troppe ore della mia vita allo studio della matematica, ma così a occhio, lasciare l’albergo a Matera alle 10 per arrivare a Stazione Centrale alle 19 circa non è meno di quanto ci abbia messo all’andata, ma l’idea di non dovermi sbattere per aeroporti e shuttle ha avuto la meglio sul mio non essere un contabile. Così mi ritrovo qui, a bordo di un FrecciaRossa, partito da Lecce e diretto a Milano, in buona compagnia con una cifra esorbitante di altri viaggiatori della domenica. Domenica che, stando alle temperature, fossi io un barese, avrei dedicato all’andare al mare a farmi un bagno, non fosse altro perché non sarei poi finito su un treno a chiacchierare a voce alta rompendo i coglioni a me, che sono sì anconetano, quindi di mio portato a mia volta a andare al mare a fare un bagno, ma residente a Milano, dove è noto, il mare non c’è, e giusto Beppe Sala ha il coraggio di chiamare l’Idroscalo il mare di Milano. Comunque sono qui, mix tra Paul Theroux e Alberto Arbasino, una confezione maxi di alette di pollo di KFL a farmi compagnia verso ora di pranzo, solo un genio come me, penserete, in un luogo che propone tante succulenze gastronomiche, a partire dalla mitica focaccia pugliese, va a prendersi un prodotto da fast food, che per altro è venduto al medesimo prezzo di Lugano, ma il van mi ha lasciato di fronte alla stazione a venti minuti dalla partenza del treno, mica è colpa mia. Per la cronaca, e questo sarà il solo momento in cui comparirà in questo reportage gonzo, con me c’è mia figlia Lucia, in arte Lucciola, con me a Matera per l’evento di cui sopra, ma siccome non voglio dare l’impressione che, come un anziano necessitante di badante, io viaggi sempre accompagnato da uno dei miei figli, per il giro in bici per le strade di Milano era Tommaso, qui Lucia, la notazione si autodistruggerà tra dieci secondi.
Altra notazione, folkloristica, siamo pur sempre nella regione della Pizzica e la Taranta, in van abbiamo assistito a una scena degna di nota, l’autista, materano, per tutto il tempo ha ricevuto telefonate e messaggi che chiedevano i suoi servizi per le ore successive. Un lavoraccio, che evidentemente però rende. A un certo punto ha iniziato a chattare con un tizio, immagino cinese, stando al Google Traduttore che l’autista usava per comunicare con lui, che gli tributava il suo amore, invitandolo a cena, a vedersi, a fare cose. Lui ha risposto, traducendo il suo pensiero sempre con Google Traduttore, prima respingendo le avance, e cosa doveva mai dire a chi gli sparava frasi come “l’amore a volte arriva all’improvviso, devi saperlo cogliere”, poi ha chiosato con una frase degna di essere riportata “Te lo dico nel modo più educato possibile, mi hai rotto i coglioni”. Fine delle trasmissioni.
Comunque si parte, io, le alette di pollo del colonnello, una serie di film scaricati proditoriamente sull’iPad e un paio di libri, ché nella vita non si sa mai, magari mi viene anche voglia di leggere. Viaggio controsenso, cioè col viso rivolto verso la coda del treno, fatto che esclude già in partenza che io possa mai avere a che fare con Eduard Limonov e Jasemyn Ward. Intorno a me c’è una ragazza con felpa che copre a stento il busto, lasciando scoperta la pancia, occhiali da sole neri a coprire parte del viso mentre dorme in palese hangover, un anziano con mascherina che gioca con lo smartphone, ignaro che si possa anche togliere il volume del medesimo, un’altra ragazza che passerà parte del viaggio a farci sapere i cazzi suoi e del suo fidanzato, parlando con lui tramite messaggi vocali degni di finire in una prossima canzone dei da poco riuniti Thegiornalisti, e già il fatto che i ragazzi comunichino con i vocali, cioè senza mettere in campo la possibilità di interrompersi, spostando magari il discorso verso altri lidi, è una cosa che, immagino, manderebbe in brodo di giuggiole l’altro giornalista, quello che riprendevo sul pezzo dedicato a un giorno in Stazione Centrale (non lo cito perché mi ha scritto piccato perché convinto che io lo abbia preso per il culo per il cognome, io che mi trovo quotidianamente commenti e messaggi sul mio essere, cito, “piccolo mona”, figuriamoci che cazzo mi frega di cognomi che inneggiano, appunto, a altro, lì parlavo del genere letterario che ormai il suo modo di raccontare l’oggi è diventato, lui non c’entrava affatto, se non in quanto inventore del genere in questione), e una signora di mezza età, e con mezza età intendo più vecchia di me che sono a mia volta di mezza età, cinquantaquattro anni, in partenza, oltre settanta all’arrivo, che si è fatta mettere le valige sull’apposito spazio da un ragazzotto, credo il figlio, lì sul treno nonostante le soste siano brevissime. Tanto, questo lo scopro subito, perché nei FrecciaRossa, signora mia, c’è una televisione che ti informa su prossime fermate, velocità di crociera, varie e eventuali, dopo Bari il treno si ferma a Barletta, al massimo torna indietro a piedi. Perché sì, nonostante quanto mi sia stato detto, quel “ci metti meno”, il treno in questione, non un regionale, attenzione, ma un FrecciaRossa, che già nel nome dovrebbe nascondere l’idea di qualcosa che scoccato impieghi una frazione di secondo a infilzarti, il treno si ferma praticamente ovunque, immagino che Barletta sia stata scelta a casa nel filotto di cittadine che anticipano Bari lì sulla costa, tra una Molfetta, una Trani e quel che è. Fermandosi ovunque, per altro, non prende mai veramente velocità, mandando serenamente a puttane l’idea di Freccia, e procedendo invece come un vecchio treno a vapore, di quelli cantati così iconicamente da Ivano Fossati. Bari, Barletta, Foggia, Termoli, Vasto no, con buona pace di mia suocera che è di lì e pensa, ingenuamente, che Vasto sia un luogo di suo rilevante come Milano, e poi Pescara, San Benedetto, la mia Ancona, Senigallia, sì, dopo Ancona Senigallia, che è a uno sputo, e poi Pesaro, Rimini, Forlì, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma e solo dopo Milano, tra ottocento chilometri e passa, una roba indescrivibile. Prima cosa che noto, io che non viaggio quasi mai in treno perché sono dell’idea che viaggiare in auto sia meno impattante non tanto col pianeta, quanto piuttosto col mio essere poco incline a confondermi con gli altri, è che rispetto al passato è più difficile fare i portoghesi, nel senso di viaggiare senza biglietto. Lo so, dire “fare i portoghesi” è forse peggio che fare body shaming, oggi come oggi, ma è un modo di dire ancora in auge, credo, e rende l’idea, quindi prendetevela con chi l’ha pensata, sembra dei romani che ai tempi di un evento allo stadio in cui l’ingresso era gratuito solo per la piccola comunità portoghese della capitale, entrarono a sbafo in massa dicendo di essere portoghesi, quindi in realtà tecnicamente andrebbe detto “fare i romani”, così tanto per aprire altri squarci nel mio già liso quadernetto delle gaffes. Comunque, oggi i controllori, che nel mio caso saranno sempre controllore, se ne faccia una ragione il generale Vannacci, si presentano a ogni fermata con un mini tablet andando direttamente dai nuovi arrivati a chiedere il biglietto, informati evidentemente di volta in volta di chi sale dove. Una sorta di grande fratello applicato ai trasporti, fatto che ci proietta in un futuro che, altrimenti, è del tutto assente da queste tratte. Perché, a parte la faccenda del fermarsi ovunque, andando quindi come il bradipo di Zoopolis, c’è che l’aria condizionata funziona malino, o è tarata su temperature esterne, quindi qui dentro fa esattamente caldo come fa caldo nelle spiagge che vedo dal finestrino, piene di gente in costume che fa il bagno, mentre noi qui siamo vestiti e senza acqua salate dentro la quale immergerci (fatta eccezione per il sudore, sì salato, ma poco praticabile come vasca), c’è una connessione wi-fi che puntualmente non funziona, rendendo inizialmente la possibilità di navigare impensabile, perché ti colleghi a una rete che esiste solo nella fantasia di chi ha scritto “FrecciaRossa Wifi” da qualche parte, e quindi non navighi finché non la stacchi, e perché, questo il tasto più dolente, minuto dopo minuto si accumula una impercettibile quantità di secondi di ritardo. È un po’ come la faccenda della rana che mettiamo a bollire in pentola, so che sto citando un esempio di Noam Chomsky finito dentro il libro del generale Vannacci (poi giuro che non lo cito più), quindi passato di colpo dall’essere una abile trovata retorica all’essere diventata robaccia pronta per una massa che ragiona con la pancia, ma di meglio, qui, sudato e con ore e ore di viaggio davanti non mi viene, lì la questione era che alzando di poco la temperatura dell’acqua della pentola la rana se ne sta bella bella a fare il bagno finché l’acqua sarà troppo calda e lei troppo intorpidita per cercare di scappare, se invece si gettasse una rana direttamente nell’acqua bollente probabilmente in un ultimo tentativo di salvarsi salterebbe fuori, qui noi siamo bloccati in un treno, tipo Snowpiercer, solo che invece che essere circondati da ghiacci e neve siamo circondati da pale eoliche, quante cazzo di pale eoliche ha la Puglia?, e da spiagge con gente che si fa il bagno, e noi invece qui a accumulare ritardo che presto si assesterà intorno ai venticinque minuti, abbastanza per essere un ritardo serio, visto che il viaggio di suo dura un’era geologica, non abbastanza per chiedere un rimborso, quello scatta a trenta minuti.
Non luoghi. Il giornalista della Stazione Centrale adesso parlerebbe di non luoghi, citando il recentemente scomparso Marc Augé. Perché un treno è un non luogo, cioè uno spazio che è fuori dagli spazi raccontabili geograficamente o urbanisticamente, e perché in questo non luogo si scatenano delle dinamiche assenti altrove. Tipo che altrove, immagino, nessuno sopporterebbe senza ricorrere alla violenza fisica all’odore, si fa per dire, di sudore, o che nessuno tollererebbe di stare di fianco a gente che biascica mangiando una pasta fresca portata da casa (o alette di pollo, come nel mio caso). Ecco, per dire, sono talmente infastidito dagli odori di cucina, compresi quelli che escono dal sacchetto del mio pranzo, e soprattutto sono talmente infastidito dall’essere cosciente che il mio essere infastidito per gli odori di sudori e cibi e del mio lamentarmene mi faccia passare per un Tom Wolfe vestito decisamente peggio, un radical chic, lui che il radical chic se l’è letteralmente e letterariamente inventato, che però è spuntato in partenza, perché fare gli snob è solo fastidioso, non certo segno di alcuna arguzia, che pensare che dovrò passare qui non so quante ore mi devasta psicologicamente. Perché poi la circolazione delle gambe ne risente, lo so, sono un uomo di mezza età che si comporta come un anziano, ma nel mentre mi si è piazzata di fronte una signora che ha deciso che lei la valigia la vuole tenere in mezzo ai piedi, i miei, rendendo il tutto ancora più disagevole, signora che mangia un panino con la provola per il quale sarei disposto a pagare oro, perché buone le alette di pollo e tutto, ma vuoi mettere una bella provola locale, e anche di fianco al signore con la mascherina che gioca tutto il tempo è arrivata un’altra ragazza, che studia per un esame per entrare all’Agenzia delle Entrate, coraggiosa a farlo sapere a tutti, di questi tempi. Nel mentre, sì, confesso, mi sono sparato tutto Elvis di Baz Luhrmann, scoprendo che il Re era il solo sopravvissuto di una coppia di gemelli, l’altro morto durante il parto, sorte toccata in capo anche a me, il mio gemello Francesco morto strozzato dal cordone ombelicale, io come Elvis, ora capisco tante cose, e Il pataffio, film storico di vago sapor brancaleonesco tratto da un libro di Luigi Malerba, abbiamo superato anche la mia Ancona, senza però lasciarmi il tempo di dar vita a un qualche momento di saudade, sono partito di qui solo una settimana fa, seppur la prima settimana dopo il ritorno dalle ferie possa vanificare ogni beneficio delle ferie medesime e sembra sia durata un anno, la nostalgia non è ancora entrata nel mio repertorio quotidiano. A Pesaro, per motivi che mi sfuggono, sarà la faccenda delle Capitale culturale d’Italia, o che è rimasta la sola isola di sinistra nella mia devastata regione, c’è un notevole turn over nel vagone. Scendono quasi tutti i miei compagni di viaggio, sostituito da altri altrettanto fastidiosi (qui volevo fare quello radical chic, lo confesso, ma sono risultato solo stronzo, lo so, cinque ore di viaggio mi hanno intorpidito proprio come la rana, siamo ancora sui ventisette minuti di ritardo, niente rimborso). Al mio fianco arriva una famiglia con due bambine piccole. Lui porta un passeggino di quelli che si piegano e si infilano nei pertugi, manco fosse un Kway, lei porta in braccio la più piccola, circa un anno e mezzo, la più grande, in realtà intorno ai quattro, seduta al suo fianco. La bambina piccola è posseduta, sembrerebbe, da un essere che poi verrà combattuto da The Nun in un prossimo episodio della saga su Netflix. Si lamenta, e ci sta, fossi più piccolo lo farei anche io, ma lo fa emettendo acuti degni del miglior Brian Scott e lo fa nonostante la mamma le lasci fare di tutto, compreso guardare video per bambini sul cellulare, ovviamente senza auricolari. Dicendo questo sembro uno di quelli che si lamentano della presenza dei bambini negli aerei, e che quindi hanno gioito giorni fa sapendo che a breve una determinata compagnia prevede di farli viaggiare lontani dai suddetti, pagando ovviamente un sovrapprezzo. Io in realtà, padre di quattro figli, odio queste persone, perché a me spesso infastidiscono le loro telefonate sguaiate fatte a voce alta, il fatto che sentano, sempre a volumi alti, quei cazzo di vocali, il fatto che esistano, a tratti, ma sono stanco, e per qualche istante ho odiato anche la mamma con le bambine, il padre no, perché nascosto dietro occhiali da sole neri, esattamente come la ragazza con la felpa che lasciava scoperta la pancia che fino a un istante prima occupava il medesimo posto, dormirà tutto il tempo, esempio vivente del dominio del patriarcato 2.0. Questa cosa che un viaggio in treno mi spinga a odiare una mamma con la bambina piccola, la seconda, quattro anni scarsi, è ovviamente investita del ruolo di figlia maggiore, quindi parla come un laureando al Politecnico, diventando a sua volta inquietante, questa cosa del ritrovarmi qui a dire male di una piccola creatura e della mamma che a fatica la contiene mi mette a disagio. Questo non luogo, il treno, mi ha cambiato, potrei azzardare, o forse ha fatto cadere una maschera che non sapevo neanche di indossare. Ma no, probabilmente sono semplicemente stanco, che è poi il motivo per cui quelli che partecipano a talent che li raccontano secondo dopo secondo mentre fanno qualcosa di stancante, tipo muoversi per la giungla come in Pechino Express o provare a aprire un cocco mentre qualcuno vuole aprire un qualsiasi altro pertugio a uno/a concorrente, finiscono per dire o fare qualcosa di incredibilmente cringe, dandosi poi in pasto a una folla social pronta a sancirne la fine sociale.
Tra Bologna e Reggio Emilia, cosa che mi incuriosisce, perché le quattro città in questione, Bologna, Modena, Reggio Emilia e Parma sono praticamente equidistanti l’una dall’altra di poco più di una trentina di chilometri, succede che ci sia gente che sale a bordo, lascia una valigia, un pacco, qualcosa a chi sta viaggiando, poi scende e saluta commossa dal treno. Anche prima c’era gente che salutava commossa, ma immagino fossero parenti che sapevano che non avrebbero rivisto i loro consanguinei o magari anche i loro amori a lungo. Una tipa, per dire, è stata ferma a Foggia per tutto il tempo della sosta provando a capire dove fosse immagino la figlia, una ragazza giovane appena salita, figlia che però è andata incurante in bagno, lasciandola lì a piangere sul nulla, metafora perfetta di non saprei dire bene cosa, non ora che stiamo per arrivare, per altro con un ritardo ormai rimborsabile di quarantacinque minuti.
Quando arriviamo vicino a Milano, a viaggio ormai fatto, una voce, per tutto il viaggio le voci degli altoparlanti ci hanno avvisato che ci sono delle porte chiuse, contrassegnate da segni gialli, intimandoci a non usarle, oltre che avvisati del fatto che a un certo punto c’era un punto ristoro, notoriamente, dicevano i miei vicini, sprovvisto di qualsiasi tipo di bene primario, dal caffè ai panini, e con prezzi degni del bar di Oldani presente a Malpensa, un croissant con la crema pagato neanche lo avesse riempito col culo Valentina Nappi (immagine oscena, sono in treno da quasi nove ore, abbiate pietà di me), quando arriviamo vicino a Milano, dicevo, la voce dagli altoparlanti dice che chi aveva, aveva, notate bene, non ha, la coincidenza per Zurigo deve recarsi al punto informazioni, perché Trenitalia garantirà comunque loro di raggiungere la meta, seguito da scuse contrite, come dire, amici che siete partiti da Lecce per Zurigo, la prossima volta prendete l’aereo, costa di più ma almeno arrivate.
Mi alzo, prima che la massa si rechi verso l’uscita, consapevole che l’età mi ha evidentemente abbruttito e che mai più, non me ne vogliano i tanti che sono costretti a viaggiare in treno per un qualsiasi validissimo motivo, mi metterò in condizioni di viaggiare per dieci ore. Lo dico senza l’intelligenza arguta dell’Arbasino viaggiatore, senza la curiosità ficcante di Theroux, e senza manco l’ironia eversiva di Hunter S. Thompson, solo come uno che si è trovato a stare per dieci ore seduto su un posto controsenso di marcia, nutrendosi di alette di pollo e maledicendo se stesso per essere finito a passare peggio di Alain Elkann che parlava di lanzichenecchi su un treno diretto a Foggia (io almeno la geografia spiccia la so, ma non ho mai letto Proust in francese). Ecco, non aver citato fin qui Alain Elkann, se non in esergo, Alain Elkann che del viaggio in treno è divenuto, forse suo malgrado, simbolo in negativo in questa estate 2023, è stata una mossa credo azzeccata, nonostante la poca lucidità che il viaggio mi ha concesso, perché sarei caduto nello scontato. Farlo nel finale, chiaramente, ha vanificato il tutto, il paravento dell’aver usato senza mai citarlo il collega d’Alba come contraltare a nulla o quasi è servito.
Alla prossima, quindi, per altri reportage gonzi d’antan, magari vi racconterò un viaggio in metro, dura meno e non ci sono tempi dilatati da riempire di chiacchiere.