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La grazia a Zaki non è giustizia, ma politica. E anche stavolta a godere è la Meloni

  • di Alessio Mannino Alessio Mannino

20 luglio 2023

La grazia a Zaki non è giustizia, ma politica. E anche stavolta a godere è la Meloni
Dopo tre anni e due precedenti governi, il Conte e il Draghi, l’esecutivo di Giorgia Meloni sfila alla sinistra il risultato della liberazione di Patrick Zaki, lo studente dell’ateneo di Bologna che era stato incarcerato in Egitto per il suo attivismo contro il regime di Al-Sisi. Ma la ovvia contentezza per la libertà definitivamente ottenuta in questo singolo caso non può coprire il crudo fatto che la grazia concessa dal dittatore del Nilo non ha nulla a che spartire con la giustizia, in un Paese le cui patrie galere sono piene di dissidenti. Uno Stato che per ragioni economiche e geopolitiche dobbiamo tenerci per forza buono. Ma i cuor contenti alla Schlein esultano. Esultano, de che?

di Alessio Mannino Alessio Mannino

Questa Giorgia Meloni ha una fortuna sfacciata. Dopo tre anni di tira e molla, è lei, e non Mario Draghi né Giuseppe Conte, a portare a casa il risultato simbolico della liberazione di Patrick Zaki, il 32enne egiziano che ieri il munifico dittatore Abdel Fattah Al-Sisi ha voluto graziare. Il beau geste è giunto in seguito a una sentenza inappellabile a tre anni di carcere, dopo che lo studente in studi di genere dell’università di Bologna se ne era già fatti quasi due, dal febbraio 2020 al dicembre 2021, con le accuse di minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a proteste illegali, sovversione e propaganda terroristica. L’Egitto, come si sa, non è uno Stato di diritto: gli sgherri del generale giunto al potere con un golpe arrestano e sequestrano dall’oggi al domani chiunque sia sospettato di fare opposizione al regime. Le carceri egiziane scoppiano di dissidenti, e negli anni passati sono state migliaia le fucilazioni, specialmente dei Fratelli Musulmani, con il pretesto della lotta al jihadismo internazionale. Zacki appartiene alla religione cristiana copta, con cui Al-Sisi oggi esibisce un buon rapporto che gli torna utile per mostrarsi saldo al potere e rassicurante agli occhi dell’opinione pubblica occidentale. Ma era l’attivismo per i diritti umani, in particolare della minoranza Lgbtq, il bersaglio da colpire nella persona di Zaki. Tanto è vero che il processo a suo carico iniziato nel 2020 riguardò in prima battuta un articolo in inglese sulle manette scattate ai polsi delle persone omosessuali, trans e queer negli anni precedenti, e solo nel settembre 2021 anche la “diffusione di notizie false” per un altro articolo, del 2019, in difesa dei copti. Insomma, una vicenda pretestuosa, ma che rivela quanto il Paese del Nilo sia, né più né meno, una dittatura.

Giorgia Meloni
Giorgia Meloni

Esaltarsi per la grazia concessa dal tiranno è naturalmente comprensibile da parte del nostro governo, che raccoglie il non-lavoro svolto in tutto questo tempo da quelli che lo hanno preceduto. Perché in realtà sono troppi gli interessi in gioco fra Italia e Egitto che impedivano a Roma un impegno vero per un singolo caso. Il nostro Paese è il primo partner commerciale del Cairo in Europa, e il quarto in tutto il mondo. L’Eni, l’azienda petrolifera di Stato che è uno Stato nello Stato, fa affari di miliardi, a cominciare da quello che vede il giacimento di gas di Zohr, scoperto dai nostri tecnici nel 2015, in cima all’elenco dei bacini estrattivi del Mediterraneo. Dal 2019, l’Egitto è il primo cliente dell’industria militare italiana. In più, è il gran protettore del generale Haftar, che con le sue milizie controlla la parte orientale della Libia, sito strategico per le migrazioni. Ma proprio per tutte queste ragioni, cioè per la ragion di Stato che passa sempre dalla moneta sonante, che adesso Al-Sisi ha colto al volo l’occasione del verdetto del tribunale, per dare una parvenza giuridica a una decisione tutta e solo politica. E la ragion politica non ha mai avuto niente a che fare con la giustizia intesa come diritto o, diciamo meglio, con il diritto per come lo intendiamo noi, che saremmo, quando ci riusciamo, la culla del diritto.

La segretaria del Pd, Elly Schlein
Elly Schlein

Ecco perché sentire la segretaria del Partito Democratico Elly Schlein in versione vispa teresa gioire affermando che “la grazia è una bella notizia” fa leggermente accapponare la pelle. Va bene, Patrick Zaki è assurto a figura rappresentativa di tutto un mondo, quello che si batte per i diritti lgbtq, a cui la sinistra o presunta tale ha affidato le sue sorti, avendo accantonato la vecchia ma sempre attuale lotta di classe. Ma l’istituto della grazia è un residuo pre-moderno che per un progressista degno di questo nome semplicemente non dovrebbe più esistere. Ma siccome ormai sono saltati tutti i fondamentali e anche le più elementari ovvietà non sono più ovvie, tocca ricordarlo (fra l’altro, detto en passant, da parte di chi, come il qui scrivente, progressista non si definirebbe mai visti certi esiti del “progresso”). Ormai tutto, in quello spettacolo di immagini che è diventata la nostra società, passa per i simboli. E tutto sta nell’accaparrarsi quelli che fanno comodo. Per il resto, chi se ne frega della realtà. Anche per la Meloni, come dicevamo, è un goal di puro prestigio ornamentale: ai suoi elettori, di Zaki, è sempre importato zero. Ma, oltre al dirimente fatto di chiudere una rogna che dava fastidio alla collaborazione italo-egiziana, vuoi mettere la soddisfazione per aver scippato la vittoria dalle mani dei compagni, rimaste vuote a invocare “giustizia” (dal poliziesco Egitto?) sull’altro caso rimasto in sospeso, quello di Giulio Regeni, ammazzato dopo essere stato torturato dalla gestapo di Al-Sisi? Gli assassini del ricercatore italiano di Trieste vivono tranquilli e beati sotto lo scudo di un dittatore che, elargendo il generoso benestare su Zaki, può considerare anche la pratica Regeni chiusa per sempre. Eppure sono tutti contenti, gli umanitari da cartolina. Inguardabili, come sempre.

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