Flavia Cappellini è una giornalista freelance, sta seguendo da vicino il conflitto Israelo-Palestinese (attualmente vive a Gerusalemme Est, luogo occupato militarmente dalle forze israeliane) ed è conosciuta pure per essere una pluripremiata regista di documentari con alle spalle un background importante. Per la prima volta si racconta in un'intervista esclusiva sulle dinamiche interne del conflitto in Medioriente, vissute direttamente sul campo, a contatto con storie, famiglie, vite spezzate. La giornalista, che opera tra l'altro come inviata per Sky Tg24, parla inglese, francese e spagnolo e ha collaborato nel corso della sua carriera anche con vari altri media nazionali e internazionali: tra questi Al Jazeera English, canale di informazione del Medioriente che, come svela lei stessa in quest'intervista, starebbe per essere definitivamente chiuso su delibera israeliana.
Come ti prepari mentalmente e fisicamente prima di partire in una zona di conflitto?
C'è sempre la voglia di partire, quell'adrenalina che mi motiva. L'importante è essere quanto più preparati possibile e avere un background solido. Non sempre ci si riesce perché le tempistiche delle notizie sono troppo veloci. Tendenzialmente se sono preparata vado abbastanza tranquilla. Penso di avere la flessibilità mentale per farlo ed è una ricchezza... anche se dipende sempre dove vai. Io personalmente è dal 2018 che lavoro nella striscia di Gaza. Sono zone estremamente complesse e non si smette mai di sbagliare.
Trovi difficile mantenere l'obiettività mentre sei in una zona di guerra?
Siamo tutti esseri umani e ci possono essere dei momenti in cui puoi avere dei giudizi più approssimativi. Eppure cerco di mantenere più distacco possibile e una lucidità che mi permetta di mantenermi in equilibrio. Invece, di contro, quando mi immergo in una determinata storia o in un documentario faccio più fatica. Che poi cosa vuol dire obiettività? Soprattutto in una zona così contesa e contestata come quella in cui mi trovo, bisogna sempre scegliere il punto di vista da cui raccontare quella storia.
Il fatto di essere una donna è mai stato un problema?
Oggi giorno ti direi che è stato più facile per me essere una donna, in un luogo come questo. C'è da dire che in Palestina nelle famiglie più conservatrici le donne hanno accesso più semplice. Essere donna è un enorme punto di vantaggio sotto questo punto di vista.
A Gaza c'è una storia politicamente al femminile che conta?
Da un punto di vista mediatico vengono visti più gli uomini solo perché le donne hanno disagio ad essere riprese con la telecamera (in America Latina c'è questa credenza che la telecamera ti rubi l'anima). Ma, ecco, non vuol dire che le donne non esistano. C'è tutta un'intera sezione femminile di Hamas, per esempio. Nella striscia di Gaza esistono e operano interi gruppi che hanno influenza femminile. Poi ovviamente è una società patriarcale, non lo nego. Il Medioriente, visto dall'esterno, ha effettivamente molti problemi di leadership femminile al vertice.
Quando parti per andare in quelle zone adotti misure di sicurezza per te e per le tue fonti? Ti è mai capitato di sentirti in pericolo?
Sì. Non posso raccontarti la storia della fonte, ma diciamo che sono più attenta alle persone con cui lavoro che non a me stessa. Cerco di fare il possibile in termine di sicurezza digitale. È estremamente importante in questa area. Tu hai una serie di materiale visivo che dall'altra parte del muro può essere molto rilevante e in alcuni momenti puoi non renderti conto di cosa hai filmato, dato che parliamo di zone così dense. Magari stai girando una storia banalissima ma hai filmato qualcosa che può mettere in pericolo qualcuno. Ci sono storie di persone che sono morte perché i colleghi non hanno prestato attenzione a questa cosa.
Tu vivi a Gerusalemme, giusto?
Sì, vivo qui.
Percepisci a Gerusalemme la voglia di parlare di certi argomenti o no?
C'è sicuramente più paura. Io vivo a Gerusalemme Est, la parte occupata militarmente da Israele (è stata annessa nel 1980 ma per il diritto internazionale è un territorio occupato...poi per le persone che vivono a Gerusalemme Est la sensazione è che sia definitivamente un territorio occupato). Direi che si tratta di più di un territorio palestinese. Fino a qualche tempo fa vivevo a Gerusalemme Ovest, che è veramente un altro mondo. Gerusalemme secondo me è il posto migliore per un corrispondente perché ti permette di avere accesso ad entrambe le realtà, ma proprio perché si vive in questa continua tensione rappresenta anche un po' il cuore del conflitto. La gente è paranoica nel parlarti, soprattutto dal lato palestinese. Anche se loro sono più propensi nel mostrare ciò che stanno vivendo, a differenza degli israeliani che sono più sulla difensiva. Di recente ho concluso un documentario su una ragazza che è nella Striscia di Gaza dal 7 di Ottobre; la sua famiglia è stata l'unica che abbia deciso di raccontarsi all'emittente araba Al Jazeera, che qui in Israele sta avendo molti problemi. Non a caso sarà certamente la prossima emittente che in Israele verrà chiusa...
È molto strano quanto stai raccontando.
Proprio qualche giorno fa è stata discussa l'ultima fase del dibattito politico sulla chiusura di queste reti. Il fatto è che gli Israeliani si sentono molto attaccati, quindi adesso per loro è diventata una vera e propria questione esistenziale. Hanno molta difficoltà ad accettare di parlare di quello che succede dentro Gaza. Temono di essere giudicati. Finché ci sono gli ostaggi dentro Gaza quello che succede lì è tabù.
Gli accadimenti del 7 ottobre sono arrivati dopo dieci mesi di manifestazioni in piazza contro Nethanyau. Hai la percezione che in un certo qual modo debbano seguire la strategia militare di Nethanyau pur non essendo concordi?
In Israele c'è una maggioranza silenziosa che appoggia il governo. Le proteste antigovernative avevano creato un grande impatto nella bolla di Tel Aviv e Nethanyau ha rappresentato un cambio molto forte circa l'accentramento del potere politico ed economico presente. Fondamentalmente questo gruppo di persone (che prima stava perdendo l'influenza politica e culturale) a un certo punto ha deciso di ribellarsi, nascondendosi dietro la parola democrazia. In Israele la guerra sta portando tanti danni all'economia e quindi la gente non scende in piazza solo per la guerra in sé, ma anche per tanti altri motivi che li spingono alla protesta. La questione degli ostaggi, che prima era all'ordine del giorno, ora sta man mano diventando meno importante.
E qui ci colleghiamo alla domanda: come pensi che la copertura mediatica possa cambiare la percezione del conflitto?
I media influenzano moltissimo l'opinione pubblica. Nella copertura mediatica del conflitto raccontare di 24 ore in 24 ore solo quello che succede oggi è fuorviante, perché questa è una storia che va indietro di 75 anni. Quindi di conseguenza è problematico lanciare una vagonata di informazioni senza contestualizzare. Poi magari decidi di non entrare nella contestualizzazione perché vuoi dedicare più tempo ad altre tematiche. Però questo conflitto va letto da un punto di vista o puramente umanitario oppure da un punto di vista storico, perché solo la storia ti fornisce elementi per capire certe cose.
Esiste una forma di strumentalizzazione sul racconto che i media fanno di questo conflitto?
Io penso che in Italia si dia molto spazio mediatico a volti noti che però sanno poco di questo territorio estremamente complesso. C'è anche questa tendenza a dire la propria opinione su tutto, aprendo anche conversazioni da bar: mi chiedo perché le varie trasmissioni invitino personalità "generaliste" per parlare di un tema cosi complesso come la guerra Israelo-palestinese. Tante volte le parole sono state utilizzate in maniera impropria. C'è un grande terrore di essere accusati di antisemitismo, come succede ormai all'ordine del giorno. Poi ci sono anche gli interessi geopolitici da considerare. Eppure è diventata una storia così complessa che bisogna necessariamente entrare in profondità, è cambiata tanto la narrazione rispetto a prima. Mi dispiace anche di come venga banalizzata Israele agli occhi dell'opinione pubblica e lo dico da persona che ha sempre praticamente vissuto in Palestina, a contatto con i palestinesi.
Come influisce tutto questo sulla tua vita personale? Riesci ad andare, in qualche modo, corazzata in queste zone oppure utilizzi qualche tecnica per la tua salvaguardia mentale e personale contro lo stress, l'ansia, i traumi?
È una domanda che tocca un punto dolente. Per me le storie non finiscono mai e io sono ancora in contatto con tutte quelle persone che ho documentato. Raccontare storie mi prende tanto emotivamente, ho sempre dentro di me ognuna di queste persone. Io ho una corazza che non mi permette di sentire più niente, quindi sì, influisce tanto sulla mia vita personale. Ho anche perso amicizie, perché è difficile per tante persone capire quanto possa influenzarmi il lavoro sul fronte emotivo.