La Libia è nel caos. Il governo di Tripoli, guidato da Abdelhamid Dabaiba, è travolto dalle lotte tra milizie rivali che non sono soltanto espressione di fazioni politiche, ma veri e propri gruppi criminali. In Cirenaica, il generale Khalifa Haftar è pronto a cogliere l’occasione per rilanciare una nuova offensiva, come già avvenuto nel 2019-2020. La tensione crescente rischia di avere conseguenze molto serie anche per l’Italia. L’instabilità in Libia, infatti, impatta direttamente su tre fronti importantissimi per il nostro paese: la gestione dei flussi migratori, la sicurezza nel Mediterraneo e, soprattutto, gli approvvigionamenti energetici. La Libia rappresenta da anni una delle principali fonti di petrolio e gas per l’Italia, grazie anche al gasdotto Greenstream. Ma se il conflitto dovesse degenerare, le forniture energetiche rischierebbero di essere interrotte. Per capire meglio questa situazione, abbiamo intervistato il giornalista e analista Alberto Negri che, da anni, segue da vicino la crisi libica. Ma perché, se tutto questo riguarda la nostra sicurezza, i nostri interessi energetici e la politica migratoria, i media più importanti non ne parlano? Secondo Negri, la risposta è duplice: da un lato si cerca di minimizzare un caos ingestibile per evitare di mostrare l’incapacità italiana a intervenire efficacemente; dall’altro, molte notizie vengono ignorate o sottovalutate per convenienza politica, come dimostrano recenti episodi gravi - come l’evacuazione silenziosa di cittadini italiani dalla Libia - quasi completamente oscurati dai grandi giornali e telegiornali. E intanto, mentre l’Italia chiude gli occhi, i migranti vengono detenuti, maltrattati e torturati nei centri libici gestiti da milizie criminali. E proprio a queste stesse milizie, travestite da guardia costiera, il nostro Paese continua a versare fondi pubblici...

Alberto Negri, vista la situazione in Libia, quali sono le conseguenze che potranno toccare l'Italia?
Prima di tutto, l’instabilità della Tripolitania ha due riflessi immediati. Uno, riguarda proprio il controllo della sicurezza del Paese, i flussi migratori e la produzione di petrolio. Due, il fatto che il generale Haftar della Cirenaica può vedere in questa instabilità un’occasione per lanciare una nuova offensiva, come quella tentata su Tripoli nel 2019-2020. Certamente, per l’Italia ci sono conseguenze molto evidenti, perché il primo ministro Dabaiba è estremamente debole, non è in grado di controllare il territorio. Questo mi pare chiaro. La Libia non è solo un terreno di scontro tra fazioni politiche: è sempre più evidente che queste fazioni hanno un connotato criminale molto marcato. Tanto è vero che la Corte Penale Internazionale ha appena pubblicato un mandato di cattura per Al-Masri, ma anche l’episodio che ha scatenato gli ultimi scontri a Tripoli la settimana scorsa è legato all’assassinio di Al Kikli, altro personaggio nel mirino dell’Onu e della Corte penale internazionale. Parliamo di due soggetti che, tra l’altro, sono venuti spesso in Italia. Insomma, questo governo di Tripoli appare sempre più avviluppato nelle lotte tra le fazioni.
Quindi cosa succederà?
Oltre al fatto che, naturalmente, cercheranno di utilizzare sempre più la migrazione illegale per fare soldi, c'è la questione della produzione di petrolio, che è molto importante. La Libia oggi produce tra i 400 e i 600 mila barili al giorno, ma è in grado di produrne 1 milione e 200 mila. Quindi, se la produzione comincia a calare per le lotte tra le fazioni, le esportazioni crollano e questo può causare un aumento del prezzo del petrolio. Poi, per l’Italia, c'è anche la questione del gasdotto Greenstream, che da molti anni lega l’Italia alla Libia e che, se funzionasse come dovrebbe, con una portata di 15 miliardi di metri cubi l’anno, risolverebbe in gran parte i nostri problemi di approvvigionamento anche dal punto di vista del gas. La Libia è la nostra pompa di benzina, diciamocela tutta. Il fatto che dobbiamo andare a prendere gas e petrolio da altre parti ci crea da anni molti problemi.

Quindi, in caso di escalation militare, potrebbero essere a rischio gli approvvigionamenti sia di gas che di petrolio?
Sì, soprattutto il petrolio, perché viene prodotto principalmente in Tripolitania, che è sempre oggetto di lotte tra clan e fazioni. Immediatamente, quando c’è instabilità, tutti cercano di mettere le mani sul petrolio e sul gas libico. Tenga presente che due istituzioni libiche che erano rimaste abbastanza fuori dalle lotte politiche, la Banca centrale e la Noc, la compagnia petrolifera nazionale, ora sono nel mirino sia di Haftar che delle fazioni di Tripoli e della Tripolitania in generale. Quindi è sempre una situazione di estrema fragilità quella della Libia, dove gli attori internazionali hanno un ruolo.
Quali paesi influenzano di più le vicende libiche? E l'Italia che ruolo ha?
La Russia e la Turchia. La Russia sostiene da sempre Haftar, insieme agli Emirati Arabi Uniti e ad altri attori arabi. La Turchia ha una “longa manus” in Tripolitania: intervenne nel 2019 per salvare il governo di al-Sarraj e oggi ha buoni rapporti anche con Haftar. Questa è la novità dello scenario libico: Haftar, in questi mesi, ha rafforzato alcuni rapporti, con la Russia (era presente alla parata del 9 maggio a Mosca), ma anche con gli Usa (uno dei suoi figli è stato recentemente a Washington). E soprattutto con la Turchia, che si è detta disponibile a fornire armi e addestramento alle truppe di Haftar. Evidentemente anche Erdogan si è reso conto che i suoi protetti di Tripoli sono deboli, litigiosi e incontrollabili. L’Italia, da questi giochi, sembra abbastanza fuori. È legata solo a questi famosi memorandum per il controllo dei flussi migratori, che poi sono accordi affidati a milizie libiche. Non abbiamo più quel peso politico che avevamo in passato per influenzare positivamente la stabilizzazione del paese.

Lei, in un articolo sul Manifesto, scrive che "per contenere i flussi migratori ci siamo affidati a dei criminali". Il governo italiano, dopo il caso di Al-Masri, considerato un carnefice di migranti, non ha influenza in quello scenario?
Che l’Italia si sia affidata a criminali è un dato di fatto. Al-Masri è stato più volte ospitato in Italia, ed è ricercato dalla Corte Penale Internazionale. Come dicevo prima, in queste ore la Cpi ha pubblicato il mandato di cattura anche per Al Kikli, che tra l’altro era stato in visita a Roma lo scorso marzo insieme all’ex ministro dell’Interno Adel Jumaa, poi vittima di un attentato. Ci affidiamo a personaggi perlomeno ambigui, pericolosi, ritenuti criminali dalla comunità internazionale, non solo da noi. Con risultati poco efficaci: i flussi migratori continuano, gli approvvigionamenti energetici non sono sicuri, e la famosa “stabilizzazione” della Libia rimane lontana. La settimana scorsa, tra l’altro, c’è stato un episodio trattato con superficialità dai media: l’evacuazione di quasi un centinaio di cittadini italiani dalla Libia, quasi tutti imprenditori, che erano lì per fare affari. Non è un buon segnale.
E come mai, anche se ci sono tutte queste conseguenze sull’Italia, e poi l’Italia finanzia da anni la Guardia costiera libica, comunque non si parla del caos in Libia?
Non se ne parla perché è un caos difficile da gestire e i nostri governi cercano di minimizzarlo. Guardi il fatto che non abbiamo detto una parola quando Trump ha annunciato una delle sue assurde iniziative: la possibile deportazione in Libia di un milione di palestinesi. Come si può deportare un milione di persone in un Paese travolto da una guerra civile? E per di più, su una costa dalla quale partono già migliaia di migranti verso l’Italia? Eppure il nostro governo è rimasto in silenzio. Le pare normale? A me no. A me non sembra normale. Questo la dice lunga sulla difficoltà, di questo governo, come anche dei precedenti, ma in particolare di quello attuale, di dire qualcosa di serio sulla Libia.
E cosa potrebbe dire?
Che ha almeno un progetto politico. Perché è solo con un piano politico che si può provare a stabilizzare Tripoli. Se non si ha un progetto politico, diventa impossibile anche pensare alla stabilizzazione del Paese.

Quali sono gli scenari possibili nei prossimi mesi se il cessate il fuoco dovesse fallire?
Dipende da cosa succederà a Tripoli e da cosa faranno i sostenitori esterni di Haftar. Se Haftar avrà via libera e sostegno militare, potrebbe lanciare una nuova offensiva su Tripoli. Ho l’impressione, però, che anche lui si renda conto che una conquista totale della Libia sarebbe molto complicata, l’abbiamo già visto nel 2019-2020. Servirebbe, appunto, un’alternativa politica a quella militare e alla destabilizzazione. Per questo parlavo di un piano politico che riesca, in qualche modo, a far dialogare Tripoli e Bengasi, convincendo gli attori a Tripoli a costituire governi più stabili. Non mi meraviglierei se la Turchia spingesse l’attuale premier Dabaiba, oggi molto impopolare, a fare un passo indietro.
Come valuta il trasferimento della presenza militare russa dalla Siria alla Libia orientale, e l’accordo tra Siria e DP World (multinazionale che opera nel settore del trasporto e della logistica, con sede a Dubai)? Può essere una mossa indiretta degli Usa per spingere la Russia fuori dal Mediterraneo?
La Russia gioca una partita a lungo raggio sulle coste libiche, perché è alla ricerca di una base militare che possa sostituire quelle siriane, oggi congelate.
Sta cercando un’intesa con Haftar per ottenere una base navale in Cirenaica. Non è semplice, perché Haftar subisce anche pressioni americane e vuole mantenere buoni rapporti con gli Stati Uniti. Non dimentichiamoci che Haftar è un cittadino americano: ha vissuto per vent’anni in esilio in Virginia, dove ha sede anche la Cia. Gli Emirati, dal canto loro, giocano una partita a più ampio raggio in tutta la regione: sono presenti in Libia, ma anche in Sudan, dove sostengono il generale Hemeti. Cercano di estendere la loro influenza lungo tutto il Mar Rosso. Ovviamente sappiamo bene della contesa tra Etiopia, Eritrea e Sudan. E poi c’è la Libia, dove diversi attori internazionali vedono ancora uno spazio per consolidare il proprio peso.
