“Oh, gioie profonde del Boem, chi non vi ha conosciute?”. George Orwell. O forse era Pasolini. No, aspetta, facciamo Charles Bukowski, che va sempre bene. Se non lo sai già, e vuoi scoprire di chi era davvero questa citazione, ti devi leggere tutto il resto dell'articolo. Porta pazienza. Nel tempo della citazione presa cercando su Google, leggere un libro è un atto rivoluzionario, quantomeno per non ritrovarsi poi come Lavinia Menunni, a citare un passo di Orwell, “Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”, quando in realtà Orwell non lo ha mai scritto davvero. Sembra che sia stato utilizzato per la prima volta, senza la parola “universale”, ed erroneamente attribuito a Orwell, in Partners in Ecocide: Complicity of Australia in the Uranium Cartel di Venturino Giorgio Venturini nel 1982. Ma l'inganno non è tutto qui: per ironia della malasorte politica, l'aforisma assomiglia come una goccia d'acqua a una frase, questa volta vera, scritta da un rivoluzionario come Antonio Gramsci, lontano anni luce dalla senatrice di Fratelli d'Italia, e apparsa in un articolo del 21 giugno 1919, intitolato “Democrazia Operaia”: “Dire la verità, arrivare insieme alla verità, è compiere azione comunista e rivoluzionaria”. E non finisce qui: cercando la citazione su Google se ne può afferrare l'inconsistenza a colpo d'occhio, in quanto l'aforisma viene attribuito a Orwell, a Pasolini, o al classico e più generico “Cit”, che è già di per sé una certificazione di origine sconosciuta. Ma al peggio non c'è mai fine, e aprendo lo stesso sito in cui vengono raccolte citazioni da ogni dove, pronte e calde da usare come caption sotto le più comuni foto del cane o delle vacanze, ci si accorge che, proprio sotto la frase citata dalla Mennuni, c'è una nota in cui ne viene spiegata la provenienza filologicamente dubbia. Nel tempo dell'inganno universale, è facile ingannarsi anche quando si pensa di dire la verità.
Ora, andando oltre la semplice coprofania (neologismo mio per indicare la più prosaica “figura-di-merda”, sentitevi liberi di usarlo in contesti raffinati) fatta dal Senatore, che poi sarebbe Senatrice, il problema delle citazioni è una croce che affligge la letteratura intera, almeno da quando esistono i social. Frasi decontestualizzate, aforismi improbabili, autori dimenticati o, peggio, identificati con una citazione soltanto. Tutto questo non fa che trasformare un potenziale lettore in un probabile disinteressato. Un esempio: quando avevo sedici anni mi innamorai del personaggio di Bukowski, perché era cattivo, ubriaco, cinico, disincantato. Ai poeti, Bukowski preferiva "la scoreggia di elefante nel tendone di un circo”; affermava di odiare “il mortal riverbero” dei passanti, il “tanfo nauseabondo della stupida razza umana”. Il personaggio portato avanti in letteratura e nella vita da Bukowski era quello del misantropo poeta e ubriacone, i cui passatempi sono le scommesse sui cavalli, le donne, la birra a buon mercato e le risse. Bene, lo stesso Bukowski, dai frammenti che si trovano girando sui social, sembra un Moccia con la barba lunga, e credo che se lo avessi conosciuto soltanto dalle citazioni che vengono ripostate online, non avrei usato un suo libro nemmeno per scacciare le cimici dal cesso. E se il citazionismo è deleterio all'arte letteraria, le nuove modalità di promozione culturale sui social non fanno che peggiorare le cose. I fenomeni del “bookstagram” o del “booktok”, in cui vengono recensiti sui social libri nuovi o classici, rende la letteratura stessa qualcosa di ancora più noioso e disattentivo. I libri vengono presentati a ondate, per trends, e sono sempre gli stessi, e spesso e volentieri sono anche soltanto recensiti perché l'influencer di turno è stato reclutato dalla casa editrice, come in tutte le normali campagne di marketing. Ma anche nel caso in cui avrebbero potuto essere interessanti, la conseguenza è quella di avere come l'impressione di sapere già tutto, un po' come quando devi visitare una città nuova e te la giri prima tutta su Google Maps (se potete, evitate!).
La frase che ho messo in apertura è in realtà di Charles Baudelaire, ed è l'incipit dei Paradisi artificiali, e al posto di Boem il poeta maledetto aveva messo il vino. L'ho trovata dopo aver aperto qualche libro che ho in salone, in una vecchia edizione economica. L'amore per la letteratura andrebbe coltivato così, in maniera fisica, smanacciando i libri, sottolineandoli, lasciandoli in giro per casa, dove capita. Anche quando è ora di sceglierli, il modo migliore sarebbe quello di andare in libreria, sfogliarli, andare oltre la superficialità delle recensioni fatte da persone che con buone probabilità nemmeno li hanno letti, i libri che pubblicizzano, così come non li hanno letti i politici che pubblicano gli aforismi su X.