Negli ultimi anni, sui social vi sarà capitato chissà quante volte di leggere un meme con su scritto “la sinistra riparta da” seguito da un nome, che sia quello di Emma, lì a parlare di discriminazioni o di Zaia, incredibilmente considerato politico illuminato, forse perché paragonato ai suoi compagni di partito (il che è come dire che Gongolo era alto, perché appena più alto degli altri sei nani). Un modo per indicare, nel deserto dei tartari in cui la sinistra si aggira da tempo immemore, una fontanella dove abbeverarsi (parlo sempre di chi vota o crede in qualche idea che sia ascrivibile al concetto di sinistra). Io sono anarchico, della sinistra mi frega poco o niente, ma così è scritto negli archivi della Questura di Ancona, dove così sono stato registrato quando mi hanno fermato il giorno in cui Silvio Berlusconi - era il novembre 1993- è arrivato in elicottero in città per raccontare ai notabili locali la sua intenzione di “scendere in campo”. Sono un anarchico, vivevo pure in piazza Errico Malatesta, allora. Dei comunisti mi è sempre fregato poco. Anzi, in quanto anarchico, storicamente, i comunisti mi dovrebbero pure stare sul caz*o. Un cugino di mio nonno Mario, del resto, era il Pietro anarchico partito per la guerra di Spagna, figuriamoci se provo simpatia per la sinistra. Provo però grande simpatia per Giorgio Cremaschi, e per quel che ha detto l’altro giorno a L’aria che tira, da Parenzo. E provo ancor più simpatia per le ghigliottine. Questi i fatti, si parlava di utilizzo sconsiderato di luoghi di cultura, luoghi storici, patrimonio collettivo, da parte di privati, in virtù del solo fatto di avere soldi per poterli affittare. Il punto di partenza era ovviamente la vicenda del party organizzato a Brera da L’Estetista Cinica, con Parenzo a difendere il fatto che grazie ai soldi da lei versati nella cassa della Pinacoteca e dell’Accademia, 88mila euro, un po’ di ossigeno era entrato in quei polmoni in asfissia. Poco conta l’ingresso in scooter, la cena in luoghi dove gli studenti non possono neanche bere dalle proprie borracce (mia figlia studia all’Accademia, so di cosa parlo), il trash ospitato in un luogo preposto all’alto, l’importante è che si sia pagato il dovuto. Cremaschi, ospite del programma insieme a Vittorio Sgarbi e Cecchi Paone - non ho seguito la puntata ma visto stralci sui social, non ho idea cosa abbiano detto loro - non era del medesimo avviso del conduttore, che spero incarnasse più che altro il ruolo del cinico, per partito preso. Ha ipotizzato un futuro che, per finanziare la cultura, preveda il Colosseo affittato per un addio al celibato, con gladiatori e compagnia bella, spostando lo sguardo su altre realtà pubbliche in affanno, quindi bisognose di finanziamenti, gli ospedali, location di feste, o le scuole, e l’Accademia è un’università, a tutti gli effetti. Il passaggio successivo del suo discorso, a distanza, una libreria con su una sciarpa coi colori palestinesi a far bella mostra di sé, è da scolpire sulla fiancata del negozio della Ferragni, per dire, una che ha organizzato una festa di compleanno al suo ex, allora non ex, lanciando frutta in un supermercato, e che poi è andata in cima al Monte Bianco in elicottero, vuoi mai assaggiare la fatica dell’ascesa come un personaggio di Cognetti?
Queste parole: “Siamo una società che sta tornando a Maria Antonietta, al Medioevo, dove si distrugge il privato, si distruggono i diritti, si distrugge anche il senso della giustizia sociale, perché i ricchi sono ricchi perché se lo meritano, i poveri sono poveri per colpa loro, perché hanno colpa, perché non si son dati da fare. E quindi, di fronte a una società così barbara si fanno le feste, come le brioches. È una regressione generale.” Parole sante, a cui fa da sponda Cecchi Paone che chiede “Qual è la soluzione?” Ed ecco il colpo da maestro, cattivo maestro, di Cremaschi: “Bisogna che i ricchi ricomincino a avere paura. Ecco, di fronte a queste cose io sento il bisogno della ghigliottina”. E hai voglia Parenzo a gigioneggiare, evidenziando che di metafora si tratta. Cremaschi, come me, ha bisogno della ghigliottina. “Ghigliottina che ha risolto tanti problemi dell’umanità”. Ora, fatta la tara della faccenda di Brera, disdicevole, anche solo per il fatto che io abbia dovuto vergare su un foglio word il nome de L’Estetista Cinica, santo Iddio, un mondo che preveda che un intellettuale debba occuparsi di una che si fa chiamare “Estetista Cinica” è di suo un mondo ingiusto, orribile. È bene chiarire qualche punto. In questa società votata all’esibizionismo, complici ovviamente i social, dove ci è stato inculcato per anni che avere equivale a essere - anzi, è qualcosa di più che essere - e dove il successo è più del talento, dove apparire è più che esistere, il tutto su uno scenario di smantellamento di qualsiasi forma di diritto sociale, a volte avvenuta mentre proprio a sinistra si provava almeno a tenere in piedi uno straccio di schema di diritti civili, essere ricchi è diventato qualcosa da mostrare, laddove è noto che un tempo la ricchezza andava taciuta. Anzi, si doveva dimostrare di essere un po’ meno poveri proprio laddove si era poveri, alzando almeno uno straccio, è il caso di dirlo, di difesa della propria dignità andando a giocare - male, va detto - sullo stesso piano. Motivo per cui i proletari e ancor più i sottoproletari erano soliti andare in piazza la domenica, poco importa se dopo la messa o senza proprio esserci andati, vestiti di tutto punto, la giacca, la cravatta, il cappello, per dimostrare di essere in qualche modo alla pari dei padroni. Concetto questo, io sono nato in una famiglia che sarebbe stata iscritta d’ufficio nella linea di confine tra piccola borghesia e proletariato, mio padre impiegato, mia madre casalinga, concetto questo che mi è stato raccontato da un amico e collega di origini sottoproletarie, figlio di un Martinitt, sempre in giacca quando si trattava di andare a eventi pubblici con il nostro editore, cosa che mi ha sempre lasciato perplesso, perché lui, come me, non è uso portare giacche nella vita di tutti i giorni. Una necessità, quella di mostrarsi almeno in quello alla pari, che non mi è evidentemente stata passata per Dna, ma che ho capito e capisco. Come capisco, perché a mio modo l’ho vissuta sulla mia pelle, quando per salvarci il c*lo il Comune di Ancona ha chiesto e ottenuto che tutte le case sfitte in città fossero messe a disposizione di chi l’aveva persa a causa del terremoto del 1972, noi passati dal centro storico al centro centro, a casa del prefetto di Macerata, assolutamente fuori contesto sociale e economico, sputati in un quartiere alto borghese, in un palazzo con dirigenti della Regione e professori universitari. Come capisco il senso di rivalsa economica, non dico come un Tony Effe, “costretto” a vivere con una paghetta di soli 150 euro alla settimana - anima bella – ma comunque quella del solo senza motorino in una folla di giovani centauri, una cosa che non ti togli di dosso neanche quando poi sei adulto, iscritto d’ufficio nella borghesia, una casa di proprietà, una macchina da sette poste, vacanze all’estero e compagnia bella.
Io, in questa società in cui è richiesta una costante esibizione di reale o virtuale ricchezza, perché se non si mostra cosa si ha non si è, e perché se non si ha, spesso, non si è in grado di poter fare cose anche basilari quali curarsi, studiare, vivere una vita decente, mi trovo a disagio. Quasi provo vergogna non a essere ricco - non lo sono - ma a vivere una vita che in teoria si potrebbe catalogare come normale: lavoro, ho studiato, ho quel che appunto - direbbe Cremaschi con scherno - mi merito. Però sono circondato da gente che invece pensa seriamente di meritarsi quello che ha, e quindi pretende di avere quel che non dovrebbe o potrebbe avere, sia esso la Pinacoteca di Brera per fare un’esibizione di burinaggine, un supermercato per lanciarsi frutta ritenendo sia il giusto modo per festeggiare un compleanno, o una corsia preferenziale in ospedale, quando si tratta di fare una visita, un posto in una università esclusiva, esclusiva perché con tasse troppo alte per chi non sia parte di una cerchia ristretta, cerchia ristretta che poi andrà a costituire la rete professionale che tale resterà, ristretta, i poveri coi poveri, i ricchi coi ricchi. In tutto questo, con una decadenza che, i party cafoni, la frutta sprecata, altro non sembra che i banchetti abbondanti e anche vagamente lussuriosi attorno ai quali i barbari trovarono i romani, un attimo prima di dare Roma alle fiamme, meritate, il senso del consentito assolutamente dissolto, come la morale di chi pensa di poter fare e avere tutto in virtù del conto in banca o di un ruolo sociale. In questo contesto, penso, la ghigliottina sia in effetti la sola soluzione, assai più delle zuppe di pomodoro lanciate contro i vetri che proteggono i quadri, quelli stigmatizzati da tutti, Estetista Cinica compresa, immagino, assai più di qualsiasi forma di protesta, più o meno dignitosa e concreta. Una testa tagliata è una testa tagliata, un’immagine che non necessita di didascalie e che anche chi ha ma non sa può comprendere. Una testa tagliata che rotola in una cesta, poi, regala quella paura, il buco del c*lo che si stringe, letteralmente e letterariamente, rizzando i peli sulla schiena e sul collo, sola possibilità di ritrovare un senno che sembra per sempre smarrito. La sinistra, il popolo tutto, riparta dalle ghigliottine, quindi. Qualcuno dirà, ma questa è istigazione alla violenza. Per dirla col poeta, a mali estremi, Estremi rimedi. Poi che vi si debba spiegare le figure retoriche, converrete, è un problema più vostro che nostro, noi siamo intellettuali, mica i boia.