Tra i lavoratori dipendenti e i pensionati, ben 35 milioni di italiani stanno per beneficiare della tanto attesa tredicesima mensilità, la quale ammonta a un significativo totale di 40,7 miliardi di euro. Tuttavia, dietro questa elargizione natalizia si cela un aspetto rilevante: il fisco, attraverso la ritenuta dell'Irpef, incasserà ben 13,2 miliardi di euro, portando la spesa totale per le aziende a 53,9 miliardi. Più della somma delle due manovre di Giorgia Meloni. Rispetto all'anno precedente, il volume economico complessivo delle tredicesime ha registrato un aumento notevole di 7 miliardi di euro. Questo incremento è attribuibile principalmente all'aumento del numero dei dipendenti, saliti di quasi 400.000 unità rispetto al 2022. Ma questa misura introdotta in era fascista, nel 1937, è ancora attuale? E non è una fonte di disuguaglianze in un mondo di lavoro sempre più precarizzato e incerto? Una riflessione vale la pena di essere sviluppata. In Italia, la tredicesima mensilità è tradizionalmente considerata un beneficio lavorativo, un incentivo che contribuisce al benessere economico dei dipendenti. Tuttavia, nel contesto attuale, con un mercato del lavoro dominato da una vasta presenza di precari e autonomi, sorgono problemi significativi legati a questa pratica. Il cuore della questione risiede nell'ineguaglianza che caratterizza la distribuzione della tredicesima. Molti lavoratori autonomi e precari, pur contribuendo al tessuto economico del Paese, si trovano esclusi da questo vantaggio. Questo divario crea uno squilibrio sociale ed economico, evidenziando la disparità tra i lavoratori dipendenti e coloro che, per varie ragioni, non godono di una posizione lavorativa stabile. I rischi di trasformare la tredicesima in un privilegio sono molteplici. Innanzitutto, si accentua la divisione tra chi beneficia di questa gratifica e chi ne è privato, alimentando potenziali tensioni sociali. In un periodo in cui l'equità e la giustizia sociale sono temi centrali, la creazione di distinzioni così nette tra categorie di lavoratori può contribuire a un clima di insoddisfazione diffusa.
In secondo luogo, l’elargizione della tredicesima in periodo di consumi notevoli come quello delle spese natalizie può generare una strutturale iniquità a favore di chi gode di contratti stabili sul fronte di spese e aperture a una quota maggiore di consumi. Ma può al contempo creare una finta illusione di benessere, riducendo l’incentivo a tesaurizzare i risparmi. Inoltre, la tredicesima come privilegio può amplificare le disuguaglianze di reddito, generando un circolo vizioso in cui i lavoratori precari e gli stagisti, già svantaggiati, vedono ulteriormente ridotti i loro margini finanziari. Dato che la tredicesima è erogata da ogni datore di lavoro proporzionalmente alle mensilità lavorate, si trova oggigiorno un’ampia platea di soggetti esclusi. Proviamo a quantificarli. Innanzitutto, 5 milioni di lavoratori autonomi. Con un’esposizione notevole tra i giovani, il cui impiego è regno delle finte partite Iva e di contratti “mascherati”. Per dare un dato, su poco più di 4 milioni di occupati tra i 25 e i 34 anni, il 16,3% svolge un lavoro autonomo contro una media Ue del 9,4%. Aggiungiamo a essi mezzo milione di stagisti che, secondo i dati più affidabili, sono quelli attivi per tirocini extracurriculari in ogni momento in Italia. Un milione, secondo l’Osservatorio sul Precariato dell’Inps, gli stagionali. Questi sei milioni e mezzo di persone rappresentano una platea pari a oltre un terzo dei lavoratori riceventi le tredicesime che è in parte esclusa da questo bonus. Il numero più che raddoppia pensando ai 7 milioni di precari che a tale bonus hanno accesso parziale, incerto o incompleto. La tredicesima è uno strumento il cui futuro va discusso va oltre la mera erogazione di un bonus natalizio. Riguarda la necessità di costruire un sistema più inclusivo, che tenga conto della complessità del mercato del lavoro contemporaneo. Solo attraverso un approccio equo e sostenibile, si può sperare di evitare che la tredicesima diventi un privilegio inaccessibile per una parte significativa della forza lavoro italiana.
Affrontare questa sfida richiede una riflessione approfondita sul concetto stesso di tredicesima. Potrebbe essere il momento di riconsiderare le politiche aziendali e governative per garantire che tutti i lavoratori, indipendentemente dal loro status occupazionale, possano beneficiare di un trattamento equo. Questo potrebbe comportare la ricerca di nuovi modelli di incentivazione o la promozione di misure che garantiscano tanto un sistema crescente di tutele per ammortizzare i rischi economici dovuti ad autonomia del lavoro e precariato e non ridurre la tredicesima a un tratto distintivo, decisivo, tra un mercato del lavoro di “salvati” e uno di “sommersi”, in numero notevole, va ricordato, giovani alle prime esperienze. Questo perché poi la tredicesima ha una base contributiva e imponibile, e dunque si conteggia anche sul fronte pensionistico e previdenziale. Aumentando anche su questo fronte le divergenze. La tredicesima, dunque, contribuisce ad alimentare le discrepanze nel mercato del lavoro tra stabili e precari di varia risma. In quest’ultima categoria possiamo quantomeno inserire una quota di popolazione pari, come minimo, a due intere città di Roma, a un decimo del totale degli italiani. Ma dare la colpa al bonus natalizio, che fa sentire solo più pressante questa discrepanza, significa guardare il dito e non la Luna. Il vero problema è la giungla di contratti e clausole che normano il mondo del lavoro italiano. In cui aumenta l’occupazione, ma anche quello dei working poor: circa un quarto dei 5,6 milioni di connazionali in condizioni di povertà, secondo le stime Caritas. La questione occupazionale, che è anche generazionale, è la chiave del futuro del Paese. E va affrontata partendo dal sanare le disuguaglianze. Auspichiamo, idealmente, la tredicesima per tutti: ovvero un trattamento equo, sicuro e stabilizzato per il maggior numero di lavoratori. Ma se ciò non fosse possibile, questa e altre asimmetrie (come l’assenza di stabilità sulla malattia, l’assicurazione contro gli infortuni, la previdenza in leggi come la 104 etc.) vanno sanate a favore di chi non ha un contratto stabile. Il futuro del lavoro va reso democratico e inclusivo per rendere più democratica e inclusiva l’Italia nel suo complesso.