Sembrano lontani i tempi dei verbali Moro, l’inchiesta del 1980 con cui l’Espresso pubblicò alcune testimonianze rese dai personaggi politici alla Commissione parlamentare d'inchiesta incaricata di fare luce sull’ingarbugliata e spesso contraddittoria vicenda di Aldo Moro. In quei documenti inediti, si svelavano alcuni particolari della vicenda simbolo di quegli anni, dal sequestro per mano delle Brigate Rosse alla detenzione presso il Tribunale del Popolo, fino alla fatidica telefonata che ne comunicava la morte localizzandone il cadavere in una Renault 4 rossa in via Caetani, Roma. Quel lavoro contribuì a connotare l’Espresso, fondato 25 anni prima da Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti, come il giornale d’inchiesta per eccellenza. A svariati anni di distanza l’ultimo numero, datato 11 aprile 2025, titola: “Ustica, la verità”. Tre parole per aprire uno squarcio sulla “Strage di Ustica”, una delle vicende più nebulose nella storia della repubblica: “Il DC-9 Itavia con 81 persone a bordo venne centrato da un caccia americano durante un’azione di guerra aerea: ecco cosa accadde il 27 giugno del 1980. Nei reperti la prova della collisione. Tutti gli indizi nascosti in 45 anni di depistaggi”, recita il sottotitolo. Un dossier che segue una scia di lavori con i quali il settimanale sembrerebbe voler tornare a mettere sotto scacco il potere, come quando, con il pur contraddittorio caso Leone, Camilla Cederna costrinse l’allora presidente della Repubblica Giovanni Leone alle dimissioni – salvo poi beccarsi una condanna per diffamazione. O come quando con Regime di stampa fece sull’accentramento di potere, economico e politico, nelle mani di Silvio Berlusconi con l’acquisto di Mondadori, anticipando il gigantesco conflitto di interessi che si sarebbe creato dopo la “discesa in campo” del Cavaliere. E poi ancora I quattro re di Roma su Massimo Carminati e l’inchiesta giudiziaria di “Mafia Capitale”, o Vatileaks 1 e 2 sui segreti della Santa Sede. Ma fra Ustica, la Ferragni spa e il “caso Ipnocrazia” sono davvero tornate le inchieste “dure e pure” dell’Espresso?

Su Ustica l’Espresso ha prodotto dieci pagine di inchiesta – più l’editoriale del direttore Emilio Carelli – a cura di Paolo Biondani, che in passato ha condotto svariate inchieste scavando tra le carte giudiziarie delle stragi nere collegate agli anni di piombo. Dieci ricche pagine in cui, seppur con attenzione chirurgica, si mettono in fila cose già note per giungere a una “verità” – come recita il titolo – che ha a che fare con la dinamica della strage: “La strage di Ustica non è un mistero”; “Né un attentato, né un missile. Nessuna traccia di esplosivo”; “Il 27 giugno del 1980 l’aereo civile fu centrato da un caccia americano”, ricostruzione resa possibile dal recupero dei resti deformati dell’ala destra del DC-9 Itavia. Elementi già noti, fatti emergere da anni di indagini già archiviate e processi penali terminati senza condanna. Lo dice anche Daria Bonfietti, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime: “Anche queste indagini riconfermano la verità ormai accertata nei processi civili, con diverse sentenze definitive: è stata un’azione di guerra in tempo di pace, una strage inconfessabile”. Un’azione di guerra nella quale un caccia americano sarebbe entrato in rotta di collisione con il volo Itavia nell’inseguimento di un Mig libico. L’inchiesta prosegue smontando le tesi alternative alla collisione, come quella della bomba e del cedimento strutturale DC-9, insieme a molte suggestive ricostruzioni e reperti fotografici. Ma a mancare è ancora una volta l’elemento delle relazioni politiche, nazionali e soprattutto internazionali, che hanno contribuito a insabbiare per oltre 40 anni il caso. Lo stesso elemento che spiegherebbe la scomparsa di tre reperti potenzialmente chiave ritrovati intorno a Ustica: il caso di un pilota statunitense, il salvagente della portaerei statunitense Saratoga, ormeggiata a Napoli e operante nel Mediterraneo e il serbatoio di un aereo militare Usa “con la punta celeste” ritrovato vicino ai resti del DC-9. Oggetti sotto sequestro giudiziario conservati in depositi militari e misteriosamente spariti.

A inizio marzo MOW aveva parlato di un’altra inchiesta firmata l’Espresso, intitolata “Ferragni Spa. Il lato oscuro di Chiara”. Anche in quel caso più che scavare, sembra che il settimanale si sia limitato ad assemblare elementi noti – le società collegate all’influencer, i manager indagati, i dipendenti pagati poco – senza mai affondare veramente il colpo, evitando di far emergere nomi, confessioni anche anonime o altri elementi capaci di aggiungere tasselli alla vicenda. E circa due settimane fa è scoppiato un altro caso che è parso più un allineamento degli astri fra l’esigenza di ottenere un’intervista esclusiva e una mossa di marketing. Parliamo del caso Ipnocrazia, il saggio sul potere nell’era digitale attribuito a Jianwei Xun, intellettuale di Hong Kong, poi rivelatosi frutto della mente di Andrea Colamedici, editore di Tlon. È bastato ben poco, qualche ricerca incrociata su Google, per “smascherare” questo caso letterario e avere in tempo record Colamedici a favor di microfono, smanioso di sciorinare elucubrazioni sulla “performance narrativa” con cui avrebbe cercato di “costruire la stessa realtà che il libro analizzava teoricamente”, beccandosi una pacca sulla spalla con tanto di incoraggiamento – “Il suo libro è una gran bella performance”. Ma in che mondo e in quale giornalismo possibile un soggetto colto con le mani nella marmellata da un’inchiesta si lascia intervistare tanto amabilmente? In nessuna, e infatti in questo caso sembra che l’Espresso si sia interessato talmente tanto al caso da aver fatto a sua volta, con un’inchiesta che non lo era, una performance.
Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, sono tornate le inchieste dell'Espresso? Basta avere a disposizione un archivio sterminato in grado di coprire quasi tutta la storia dell'Italia repubblicana, giornalisti di grande spessore come il già citato Biondani e molti altri, una salda credibilità nazionale e internazionale – l'Espresso è stata la quota italiana nel consorzio di inchiesta sui Panama Papers vincitore del Pulitzer nel 2017 – per tornare a produrre giornalismo di qualità e, soprattutto, in grado di lasciare il segno? La risposta è no. L'impressione è che gli ultimi lavori abbiano sposato una versione economicistica del giornalismo, dove più che scavare davvero – una pratica costosa, tanto dal punto di vista materiale che di rischio reputazionale – ci si limita a comporre il puzzle con elementi già triti e ritriti. Quando va bene, come nel caso di Ustica, ciò che ne esce è una guida per orientarsi in un tema complesso, in cui sopravvivono molti coni d'ombra; quando va male (Ferragni e Tlon) si producono ircocervi giornalistici. Un po' opinione, un po' gossip, po' photo-opportunity per qualcuno.

