Roberto Vannacci contestato a Vicenza perché “fascista”? L’essenza del fascismo, come insegnava il grande e antifascistissimo storico Silvio Lanaro, fu un’ideologia situata in un preciso arco temporale che nella sua essenza consisteva nel culto di uno Stato etico, totalitario e imperialista. Per saperlo basta rileggersi la relativa voce nell’originaria Enciclopedia Treccani, scritta di proprio pugno da Benito Mussolini. Per questo i fascisti si ritenevano in diritto di reprimere il dissenso e negare la libertà di espressione: perché, secondo loro, la nazione doveva conformarsi a una sola visione, gerarchicamente dispiegata dal vertice, il Capo, fino all’ultimo dei capi-fabbricato (il consenso, diceva Montanelli che fascista lo fu, poggiava sulla “fetta di potere” distribuita a ogni capetto, previo “diritto di abusarne”). Era una dottrina dall’intrinseca ispirazione liberticida, ma pur con tutte le sue giravolte e contraddizioni aveva una coerenza di fondo, una sua organicità, insomma era una cosa seria, drammaticamente seria. Di tragica serietà, in Vannacci, non c’è traccia. Il generale, ha scritto l’Associazione Partigiani (Anpi), “ha espresso più volte opinioni apertamente reazionarie, intrise di omofobia e razzismo, in aperto contrasto con la Costituzione”. Ora, a parte il copione scopertamente furbesco di fare sparate e subito dopo ritrarsene dicendo di essere stato frainteso, il militare sospeso dal servizio non propone nessuna visione, ideologia né tanto meno dottrina: le sue idee sono il risultato di una serie di luoghi comuni che qualche punto di realtà lo colgono pure - ché altrimenti non si capirebbe la scalata alle classifiche del suo primo libro - ma servendosene per ricicciare stereotipi che una certa Italia, dalla testa piena di pregiudizi e illusioni, ama molto sentirsi ripetere. Il suo successo editoriale e potenzialmente politico si deve proprio alla mancanza di serietà, di rigore analitico, di senso critico in cui ha consistito la sua operazione di marketing spicciolo: fare da megafono a una congerie di frasi fatte rubate alla demagogia di “Fuori dal coro” o di schemini mentali rasoterra (per cui, per controbattere al politicamente corretto nella lingua comune, secondo lui sarebbe meglio ricordare l’uso di vocaboli come “finocchio” anziché gay, oppure riesumare, da Umberto Eco dei poverissimi, il termine “uranista”).
È palese, che Vannacci vellica umori e pulsioni omofobe e razziste, che esistono in tutte le società occidentali (e anche non occidentali). Ma la sostanza del suo non-pensiero non è la riproposizione di qualche forma di fascismo, a meno di non voler estendere il significato di questa parola a chiunque non sottoscriva per intero il rosario delle idee definite “democratiche e antifasciste”. È il vecchio vizio di dare del “fascio” a maglie così larghe che l’etichetta si gonfia al punto da non far capire più la realtà (che a sinistra, in teoria correttamente, sottolineano essere sempre “complessa”, giusto?). Per dire: Donald Trump, un oligarca del capitalismo newyorkese, diventa fascista perché erige muri anti-immigrati la cui costruzione è cominciata con il nero e democraticissimo Obama, o perché avrebbe sostenuto l’assalto al Campidoglio, cosa che renderebbe fasciste tutte le insurrezioni popolari di cui è costellata la storia moderna e pre-moderna. Pure Silvio Berlusconi era fascista poiché, come Vannacci, aveva dato dello “statista” a Mussolini, che è un po’ poco, dato che la sua cifra umana e politica era piuttosto quella dell’anti-statalista, ufficiale sdoganatore dell’avversione a tasse e legalità in quanto tale. Non è una questione lessicale, di lana caprina. Pier Paolo Pasolini, che ci aveva visto giusto nell’individuare il male da combattere in quella che noi oggi chiamiamo società liquida, lo diceva benissimo già cinquant’anni fa: “Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per prendersi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più [e che] è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto (…) Le tesi di destra non vanno respinte a priori. Vanno giudicate. Perché, per quanto possa sembrare strano, i fascisti hanno un pensiero, una filosofia, una cultura. Che è una grande cultura che partecipa strettamente della cultura democratica e antifascista: perché il pensiero di Gentile è l'altra faccia di Croce” (L’Europeo, 26 dicembre 1974). Vannacci non è Gentile e non è Croce, naturalmente. È solo una persona che ha trovato la sua personale vena d’oro. Ma dato che intercetta una quota non trascurabile di opinione pubblica, andrebbe smontato prendendo sul serio non lui, ma ciò che rappresenta. Vale a dire l’inconsistenza intellettuale, il conformismo lato destro, l’uso ingannevole di idee-forza come “patria” e “coraggio”, la semi-occulta adesione al solo pensiero unico che tutto fagocita e confonde: la moralina del dovere di produzione e consumo (nel suo tomo, il razzismo non è biologico, è sociale, verso chi non si dà abbastanza da fare: la solita colpevolizzazione dei poveri).
L’accusa di fascismo a Vannacci, quindi, non va a segno. È dire mele parlando di pere. È la reazione pavloviana di chi non vuole fare lo sforzino di capire davvero chi ha di fronte, prendendo la scorciatoia retorica del pericolo di fascismo permanente. Una modalità comoda, come aveva intuito Pasolini, per giustificare un’identità sfornita di analisi, argomenti, miti, riti e liturgie connesse con il mondo attuale. A Vicenza, l’Anpi e la sinistra che manifesteranno contro la presentazione del secondo libro di Vannacci (un’autobiografia in vita) hanno sfruttato l’occasione per riproporre il ripristino del testo originale della “clausola antifascista”. Si tratta di una dichiarazione che era stata introdotta nel 2018 che obbligava al “ripudio del fascismo” per chi volesse affittare uno spazio comunale(come quello preso in affitto per l’happening del generale), poi modificata dal centrodestra sostituendola con la formula, più ecumenica, di “ogni totalitarismo”. La tesi è che il suolo pubblico vada concesso esclusivamente a chi si riconosce nei valori della Costituzione, nata dalla Resistenza e dall’antifascismo. Ma era il fascismo che imponeva di pensarla tutti allo stesso modo. L’Anpi si richiama agli articoli 2 e 3 della Carta, ma si dimentica dell’articolo 21. Io, cittadinocomune, potrei pure, poniamo, non abbracciare idealmente l’impianto costituzionale (chi scrive, per esempio, non ne condivide neanche l’articolo 1 là dove sacralizza il Lavoro, che è un po’ come elevare il sudore a scopo della vita). A contare è soltanto che rispetti le sue norme - a meno di non voler imitare i rivoluzionari di ogni tempo che le norme, a un certo momento, le hanno sovvertite. E fra le norme vigenti ce n’è solo una, transitoria, che vieta la ricostituzione del partito fascista. Il resto può essere eventualmente materia per giudici penali. Ad esempio, per violazione della legge Mancino oppure, per funzionari dello Stato come Vannacci, del giuramento di fedeltà alla Costituzione. Il che, però, presuppone di dimostrare il reato. Nient’altro. La clausola antifascista, diciamolo, è un po’ fascista. E poi, amici dell’Anpi, non vi rendete conto che così date una mano a Vannacci e ai suoi seguaci nel recitare la parte (falsa) delle vittime? E su, ma anche solo un po’ di senso non diciamo politico, ma anche solo pratico, no?