Il mito di Mediobanca è crollato (o almeno ha barcollato) in assemblea, tra voti contrari, astensioni strategiche e una verità banale quanto implacabile. L’Ops su Banca Generali, la mossa difensiva di Alberto Nagel, è stata respinta. Con lei tramonta il fortino di Piazzetta Cuccia, l’ultimo bastione del capitalismo relazionale costruito da Enrico Cuccia, l’uomo che, come ricordato anche da Vincenzo Malagutti su Domani, per decenni ha governato la finanza italiana con una regola non scritta: “Articolo quinto: chi ha i soldi ha vinto”. E i soldi, a quanto pare, stavolta i soldi li avevano gli altri.
La partita, osservata da anni come un risiko di palazzo, si è risolta in modo semplice: Caltagirone e Delfin hanno fatto valere la forza del capitale reale, accumulando negli anni circa il 30% di Mediobanca. In assemblea hanno pesato come macigni, affossando il progetto di Nagel, che prevedeva di cedere il 13,1% delle Generali agli azionisti di Banca Generali in cambio di un’alleanza difensiva. Una mossa definita “opportunità mancata” dall’amministratore delegato, che ha denunciato il voto di azionisti in possibile conflitto d’interessi. Ma l’argomento suona paradossale: Mediobanca, per decenni, è stata il monumento stesso al conflitto d’interessi, con incroci e patti di sindacato che blindavano manager e famiglie imprenditoriali.
Oggi tutto questo è finito. Il castello senza fossato, per usare un’immagine circolata tra gli addetti ai lavori, è pronto per l’assalto del Monte dei Paschi di Siena, sostenuto dal governo e dalla Bce. Se Mps salirà oltre il 50% del capitale, sarà controllo pieno. Al 35% si aprirà invece un terreno di manovre, alleanze, scambi di voto che promette di agitare mercati e politica.

La disfatta di Nagel ha un sapore storico. Per Luigi Bisignani, dalle colonne de Il Tempo, Milano assiste a “una liberazione doppia e insperata auspicata da decenni. Non solo dal Leoncavallo, simbolo di un antagonismo diventato mestiere, ma anche da Mediobanca, tempio del capitalismo relazionale”. Due mondi apparentemente inconciliabili, ma che secondo Bisignani condividono “la stessa arroganza: la certezza che nulla e nessuno potesse scalfirli”.
Il parallelo è crudele e affascinante: da un lato lo sgombero ordinato da Giorgia Meloni del centro sociale simbolo dell’antagonismo milanese, dall’altro la caduta del fortino di Cuccia, abbattuto non da manovre di corridoio ma dal peso dei capitali di Caltagirone e Delfin. “Oggi quel ciclo si chiude anche grazie a un romano, Franco Caltagirone, imprenditore visionario, che assieme ai Del Vecchio e Mps ha avuto il coraggio di liberare la finanza italiana dall’ultima prigione di cartone”, scrive Bisignani.
Ma se da una parte Milano si libera dai salotti buoni, dall’altra resta la ferita della buonuscita miliardaria che Nagel pretende: “più che un premio dovrebbe preludere a un’azione di responsabilità”, accusa ancora Bisignani, parlando di “un congedo dorato superiore ai cento milioni di euro”.

Anche Maurizio Belpietro, su La Verità, legge l’evento come un epilogo sistemico: “Non rappresenta solo una sconfitta di un manager ambizioso e disinvolto come Alberto Nagel, ma anche la fine di un sistema. Lo stop di ieri è il capolinea del capitalismo senza capitali”. Mediobanca, osserva Belpietro, è stata per decenni il direttore d’orchestra di una rete di partecipazioni incrociate, una “specie di confederazione di gruppi” che garantiva potere senza capitale. Ora quel modello è evaporato: “La stagione dei capitalisti senza capitale è finita e anche quella dei manager che si sentono padroni in casa d’altri”.
Il giudizio è tagliente: il progetto “Salva Nagel”, definito “una furbata escogitata in tutta fretta”, è stato smontato pezzo per pezzo, complice la freddezza di Banca Generali e i paletti imposti da Bce e Consob. Perfino l’assenza fisica di Nagel dall’assemblea decisiva — “pare in vacanza alle Hawaii”, nota Belpietro con veleno — ha offerto il contrappunto grottesco a una sconfitta inevitabile.