Giorgia Meloni decide di farsi chiamare “il Presidente” e non “la Presidente” o “Presidentessa”. Per l’Accademia della Crusca è ok, anche se sarebbe meglio “la”, ma non per tutti. Si può scegliere il maschile o il femminile a piacere. Sulla correttezza grammaticale non ci attarderemo qui. Può essere più corretto usare l’articolo femminile anche se si pensa a una forma contratta de “la carica di presidente”, così come si potrebbe dire “la covid”, pensando alla pandemia da covid. Ma non frega a nessuno. Il discorso, ozioso, sulle desinenze di genere, non porta a niente. In attesa di poter fare l’elenco di tutto ciò che questo governo non sarà in grado di fare o farà male, la presunta opposizione si divide tra complimenti e auguri melliflui (è il caso di Matteo Renzi e di Carlo Calenda che la mena ancora sul discorso della “prima premier donna”) e isterie senza sostanza di chi si attacca a ogni sillaba pur di poter criticare. L’ultima delle serie è Laura Boldrini, che con un tweet fa sapere al mondo che a lei proprio non va giù questo fatto di non farsi chiamare “la Presidente”, dal momento che non si dovrebbe cancellare la presenza femminile dal governo.
Ma, Laura, questo è un ex falso quodlibet, il risultato di una pratica discorsiva contraddittoria, in cui tutto vale per tutto e ogni cosa è intercambiabile. È un ramo del lago di merda che il buonismo linguistico vuole propinarci, da Giorgia Soleri che non voleva chiamare gli psicofarmaci con il loro nome (come chiamarli allora?) alla crociata per la schwa del femminismo à la TikTok. Tutto questo mentre la linguistica scava tristemente un cantuccio in cui rifugiarsi, per scampare, almeno qualche ora al giorno, all’idiozia di chi vorrebbe che il linguaggio rispecchiasse l’ignoranza dei più. Insomma, giusto o meno che sia, la scelta di Giorgia Meloni dovrebbe essere lo scacco matto, ironico e definitivo, alla smania gender fluid di usare le parole come preferiamo, facendoci chiamare donna o uomo in base ai nostri umori. Scusa, cara Laura (e per lei tutte le amiche e gli amici del linguaggio inclusivo), ma io domani posso andare a lavoro e dichiararmi neutro o femmina, mentre Giorgia non può sentirsi, quale carica dello Stato, mascolo?
Andiamo avanti. Per alcuni questa scelta tradirebbe una visione maschile del potere e per questo bisognerebbe opporsi. Ma faccio fatica a prendere sul serio questa critica, nonostante sia presente nella società una certa connivenza diffusa patriarcale e machista che andrebbe combattuta, soprattutto su certi temi. Che dire di tutti quei re e imperatori, a cui si alternavano regine e imperatrici? E quegli abati che a volte erano badesse? Il potere è tale perché se ne frega del sesso. Certo, c’è stata la Legge salica (che stabiliva una linea di successione maschile), ma parimenti c’è stata l’occasione di abolirla, con la Prammatica sanzione del 1724, a opera di Carlo VI in favore di Maria Teresa d’Austria. Il potere, ripetiamolo in coro, non ha il pisello – per buona pace dei teorici del fallogocentrismo – né le tette. Al massimo è una grande orgia in cui si mischia tutto, per spolverare vecchi immaginari di denuncia politica à la Pasolini. La scelta di Giorgia Meloni è del tutto innocua e priva di qualsiasi propulsione sovversiva, retrograda o bigotta. Non perché lei non sia retrograda e bigotta (lo è). Ma perché, tranne che in Orwell (e nelle società a dominanza liberal), il linguaggio ricopre un ruolo secondario, almeno da Mussolini – escluso – in poi.
La destra politica, e non culturale, ha lo stesso interesse per il linguaggio che Selvaggia Lucarelli ha per il ballo a Ballando con le stelle. Zero, ma è un buono strumento per fare il pieno di critiche e far parlare di sé. E così si nutre della contrarietà del pubblico ai suoi commenti e alle smorfie contro Mughini e Iva Zanicchi. Allo stesso modo la destra parla di linguaggio solo per fare abbaiare la sinistra, così da guadagnarci in esposizione e simpatie. Non è difficile da capire. Lo dicono gli esponenti stessi che ora gongolano dopo la vittoria, pulita e secondo le regole, del mese scorso: ci sono cose più importanti di un pronome (o un articolo) impersonale. Ma allora, se ci sono cose più importanti, perché criticarli? Se per loro questo è nulla, criticarli sul nulla significa scegliere di non colpirli al cuore. Come se a un re ingordo che poggia i piedi su uno schiavo, si dica di smettere di mangiare a bocca aperta, che non sta bene, senza provare a falciargli le gambe e liberare l’uomo sottomesso. Invece di affilare la lama della critica, smussano gli spigoli del dissenso fino a fare apparire un governo riciclato come perfetto agli occhi di sempre più persone, persino di gente che non ha votato Giorgia Meloni.
Quindi, care e cari femministi, tenetevi “Il Presidente” e imparate dov’è la croce degli occhi e come si mira. Perché se dovete essere opposizione, dalla Meloni avete solo da imparare. E per tutti quelli che si sono lamentati dell’outfit maschile di Giorgia: ma come, denunciate il sessismo endemico e poi volete il collant? Se vi piace la fluidità di genere, amate Giorgia, madre, donna, cristiana, e vestita da uomo. E che sa le veda poi con il Signore che, per inciso, come da Deuteronomio 22:5, non avrà apprezzato la sfilata in scarponcini e pantaloni della premier: «La donna non indosserà nulla che riguardi un uomo, né l'uomo indosserà una veste da donna, perché tutti quelli che lo fanno sono un abominio per il Signore, tuo Dio». Amen.