È il giorno della sentenza. Fuori dall'aula bunker di San Vittore c'è il cantiere per i lavori stradali. I giornalisti aspettano il verdetto della giudice Rossana Mongiardo per il processo Doppia Curva. Nella via intitolata a uno dei primi cronisti di genìa italica, Pietro Azario, vissuto nel 1200, ci sono gli ultras del Milan, a ridosso dell’ingresso per le camionette della polizia penitenziaria. Quelli dell'Inter sono una decina e se ne stanno lungo uno dei lati del carcere. Con loro, appena le pause glielo consentono, si unisce Mirko Perlino, l’avvocato degli ultras neroazzurri. Poco distante, verso le 15:30, appare un ragazzo alto 1.65. Indossa un paio di sneaker, calzini di spugna bianchi con il disegno di due smile gialli, pantaloncini da basket, una t-shirt extra large, anche questa con uno smile su tutto il lato destro, e un paio di occhiali da sole. Ha un borsello in mano. È completamente tatuato, anche in volto. Sopra il sopracciglio sinistro ha la scritta in corsivo “Giuseppe”. Saluta velocemente Perlino. Gli chiedo se è lì per solidarietà a qualche amico. Lui mi risponde: «Diciamo così, sì…». L’attesa dilata il tempo, la temperatura è sui 32 gradi. Il ragazzo si siede sul marciapiede proprio in via Azario. Ci scambiamo uno sguardo e mi fa: «Ancora non si sa niente vero?». Ancora niente, gli rispondo. Mi metto accanto a lui ed è così che comincia l’intervista a Dario, lì in attesa che venga pronunciata la parola giustizia per colui che era il suo miglior amico, Antonio Bellocco, ucciso con ventuno coltellate da Andrea Beretta. Dario non ha mai parlato prima d’ora, ha scambiato solo qualche chiacchiera telefonica con Alberto Nerazzini, dialogo che non è stato inserito nella puntata di 100 Minuti andata in onda lunedì 16 giugno su La7. Gli domando: “Ti va di raccontarmi chi era Antonio?”. Per tutti era l’ennesimo figlio di una famiglia ‘ndranghetista ammazzato per affari. Detto “Totò U Nanu”, nessuno ne ha mai scritto e gli ha reso onore per chi era nella vita privata. Dario mi fa segno di sì con la testa e mi dice: «Sì, è giusto ricordarlo. Il 20 giugno poi sarebbe stato il suo compleanno». Si interrompe e commosso continua: «Guarda qua». Indica il polso sinistro, dove ha un altro nome tatuato, anche questo in corsivo: Antonio Bellocco. «Mi manca, mi manca ogni giorno».

Partiamo dall’inizio: dove vi siete conosciuti
«Ho la mamma calabrese, ma viviamo da sempre a Milano. Io sono di Pioltello, abito poco distante dal negozio di Andrea Beretta. Mio fratello era amico di Andrea, Antonio me l’ha presentato lui».
Ti ricordi la prima volta che l’hai visti?
«Eravamo proprio nel negozio di Beretta e abbiamo scoperto che entrambi condividevamo la passione per il padel. Abbiamo cominciato subito a scherzare. Lui mi diceva: “Quando andiamo a giocare ti faccio il culo”, e abbiamo organizzato subito per il pomeriggio una partita. Lui giocava con Marco Ferdico e io con un altro mio amico. Quella partita l’ho vinta io e si è incazzato come una bestia. Da quel momento abbiamo cominciato a giocare sempre insieme».
Che giocatore era a padel?
«Fortissimo, competitivo. Se sbagliava dava sempre la colpa a me e ridevamo un sacco. Per me è stato veramente un fratello. C’ero anche io alla famosa partita di calcetto la sera prima che venisse ammazzato. Sono stato io a riportarlo a casa. Il giorno dopo dovevamo vederci alle due di pomeriggio per un’altra partita di padel, ma alle undici di mattina mi hanno chiamato per dirmi che era stato ucciso».
Raccontami meglio.
«La sera prima eravamo a giocare a Carugate il “derby”, Inter contro Milan. Beretta giocava in porta».
Scusa e Bellocco com’era a calcio, forte come a padel?
«Porca put*ana, sì, era fortissimo, tostissimo. Giocava in difesa. La cosa assurda è che lui e Beretta si incitavano: “Forza Totò, grande Andre”. Poi siamo andati tutti a cena, ma alle dieci e mezzo siamo andati via perché Totò doveva tornare per la sorveglianza. L’ho riportato a casa e ci siamo dati appuntamento al giorno dopo. Tra l’altro Beretta alla cena non si era unito, forse aveva paura che potesse accadergli qualcosa. Secondo me ha commesso l’errore di fidarsi di quello che gli aveva raccontato quel cocainomane di “Bellebuono”».
E come hai saputo di quello che era successo?
«Mi ha chiamato uno che conosco e mi ha detto: “Hanno ammazzato il tuo amico, Boiocco”. Ma va, io non ho nessun amico che si chiama così. “Sì, il tuo amico”. Poi ho acceso la tv. Ero in piedi e sono caduto in ginocchio, ho cominciato a urlare. Per un anno siamo sempre stati insieme. Era più di mio fratello».

Ma i suoi legami con la famiglia, gli affari con la curva: che idea ti eri fatto? Non ti sei mai accorto di niente?
«Gli ho sempre chiesto di non mettermi in mezzo a storie che non mi piacevano. Lavoro in un’impresa edile, ho la mia famiglia, la mia vita. E lui mi diceva: “No, guai”. Voleva cambiare e fare le cose regolari, liberarsi da questo stigma che c’è sul suo nome e non avere più niente a che fare con quel mondo. Voleva che la sua famiglia si traferisse, sua moglie e i due figli. Giulia, che ha quattro anni, e il ragazzo poco più grande. Voleva farli salire in pianta stabile a Milano e farli stare il più lontano possibile dalle vicissitudini familiari. Totò aveva questo desiderio, e sono sicuro che ce l’avrebbe fatta a realizzarlo. Per questo ancora oggi non me ne faccio una ragione. Per colpa di quel pezzo di mer*a di Beretta sono state distrutte due famiglie. Beretta non mi è mai piaciuto, l’ho sempre detto anche a mio fratello».
Perché?
«Avrebbe venduto anche sua madre per i soldi, si vedeva. Non gliene fregava niente, pensava solo ai suoi affari, non aveva rispetto per nessuno. Poi secondo me Totò non lo voleva ammazzare: se vuoi uccidere qualcuno non sali in macchina insieme a lui, no? A dirla tutta nemmeno Ferdico mi ha mai convinto».
Però lui e Antonio erano davvero amici.
«Anche io ero amico di Marco, però lui ha una personalità molto egocentrica, fa fatica ad ascoltarti. Quando gli parli cambia discorso, non ti considera. Insomma, fa un po’ il fenomeno. Sono stato pure in vacanza con le loro famiglie a Riccione. Non ci volevo andare perché mi ero lasciato da poco. Per dirti com’era Totò, da uomo del sud vero, mi fa: “No, guai, tu vieni con me”. Quando ero lì cercavo di non essere di troppo, stavo in disparte, ma lui mi chiamava lo stesso. Faceva troppo ridere. Quando andavamo a cena insieme lasciavo il telefono sul tavolo e iniziava a scattarsi selfie mentre faceva lo stupido. Ho il cellulare pieno di sue foto con la lingua di fuori che fa il cretino».
E dopo che hai saputo che era stato ucciso cosa hai fatto?
«Sono andato subito alla palestra Testudo, ma non mi hanno fatto avvicinare. Poi sono andato a trovarlo nella camera mortuaria. Quando sono arrivato è stato tremendo».
Ti va di raccontarlo?
«C’era già sua moglie lì perché voleva riportare la salma a Rosarno. Antonio era pieno di coltellate anche in faccia. Quel pezzo di mer*a lo ha riempito anche in faccia. Era massacrato. È arrivato anche Ferdico, che è andato via quasi subito e poi non l’ho più rivisto».
Quanto ti manca adesso?
«Ripeto, per me era un fratello, un grande amico, non era quello che viene descritto sui giornali. Non era l'ndranghetista, ma un ragazzo con cui passavo praticamente tutte le sere. Io il giorno lavoravo, e lui pure. Anche se poi sono venute fuori le voci che il lavoro era fittizio, era sempre impegnato durante la giornata. Penso a lui sempre, costantemente. Penso ai suoi figli che ora sono tornati giù. Ogni tanto mi capita ancora di piangere. Non credo che passerà mai».

Vedo i giornalisti correre verso l’uscita dell’aula bunker. La sentenza è stata emessa. Il primo a uscire è Enzo Anghinelli con la stampella e la cicatrice in volto, accompagnato dai suoi avvocati, che comunica: Luca Luci ha preso dieci anni. Per la giustizia di primo grado il mandante dell’omicidio ai suoi danni è lui. Stessa condanna anche per Andrea Beretta, l'autore dell’omicidio Bellocco. Ha influito il suo pentimento. Nel caos perdo di vista Dario. Ho provato a ricontattarlo per un commento e per salutarlo. Non mi ha più risposto.

