Immancabili, inevitabili, puntuali come le tasse, ecco le polemiche e polemichette di bassa politica sul 25 Aprile, il cui il copione prevede un eterno rimestare di memorie contrapposte, con annesso e impudico ballo sui morti di ottant’anni fa, pur di portare acqua al proprio mulino. Per un presidente del Senato Ignazio La Russa, che di mestiere farebbe l’avvocato, che sostiene la curiosa tesi secondo cui la Costituzione non sarebbe antifascista (mentre un qualunque studente non somaro di diritto sa che le leggi, specialmente quelle fondamentali come le carte costituzionali, oltre alle lettera contengono anche uno “spirito”), c’è una Elly Schlein segretaria del Pd che l’altro giorno ha portato i suoi bravi fiori al monumento a Giacomo Matteotti, il deputato assassinato dai fascisti nel 1924, non rendendosi conto, o ignorando del tutto, che prima di essere “antifascista” Matteotti era socialista, e di quei socialisti riformisti che alla vigilia del regime mussoliniano vero e proprio avevano rifiutato l’invito dei comunisti a fare fronte unico, cosicché Antonio Gramsci lo accusò, dopo che ne furono rinvenute le spoglie, di essere stato, detto con tutta la pietà per il sacrificio di un “pioniere” delle lotte proletarie, un “pellegrino del nulla” (Stato operaio, 28 agosto 1924). L’antifascismo come collante e valore unificante era ben al di là da venire, per farlo nascere ci sarebbero voluti vent’anni di dittatura e soprattutto la sconfitta della Seconda Guerra. E inoltre, a dircela tutta, durò il tempo dei CLN e dell’Assemblea Costituente, con la Dc e il Pci che, per motivi diversi, facevano a gara nel dopoguerra per amnistiare e reintegrare i funzionari dello Stato collusi con il passato regime.
Sia come sia, la Repubblica Italiana ha il suo mito fondante nella Liberazione dagli occupanti nazisti e dai fascisti loro alleati: questo è, e fino a prova contraria, questo resta. Si può discutere, Anpi permettendo, se dichiararsi antifascisti oggi, combattendo un neo o tardo-fascismo che resiste in gruppuscoli ininfluenti e folkloristici, abbia un senso attuale, sempre che alla parola “fascismo” si attribuisca il suo significato storico e non la si stravolga riempiendola di contenuti à la carte, vedendoci quel che conviene vederci, aggiornandola come più pare e piace, in una logica strumentale che fa della Storia un’arma di propaganda da entrambi i lati. Ma tant’è: come tutti i miti di fondazione, anche il 25 Aprile si presta all’abuso, perché il ricordo è necessariamente selettivo, distorce per affermare le ragioni di parte dell’oggi, presentando a proprio uso e consumo le ragioni, di parte anch’esse, di ieri e dell’altro ieri. I partigiani contarono fra le proprie file figure nobili ma anche personaggi di modestissima levatura. Il comandante Pedro, ad esempio, con un'azione audacissima catturò Mussolini e camerati, li trattò con umanità come si fa con i vinti, ma venne presto dimenticato da tutti. Mentre il "colonnello Valerio", colui che gli strappò dalle mani Mussolini, l’amante Petacci e i gerarchi al seguito, dopo averli fucilati su ordine del Comitato di Liberazione li fece appendere ai ganci di Piazzale Loreto, dando vita a quell’osceno spettacolo da macelleria che inorridì persino un duro e puro come Sandro Pertini. Bene: Valerio fu osannato e finì premiato con uno scranno in parlamento, Pedro fece i capelli grigi in un mesto impiego all’Eni.
L 'insurrezione del 25 Aprile avvenne quando i tedeschi si erano dileguati, specie a Milano da cui scappò un ex Duce che durante la fuga, rimangiandosi in due minuti un intero ventennio di retorica sull’onore, si travestì indecorosamente da soldato della Wehrmacht. Ma detto questo, piaccia o no la Storia la scrivono i vincitori. Non é che il 14 luglio in Francia si senta invocare la commemorazione delle guardie del Re cadute a difesa della Bastiglia: si celebra l'inizio, ovviamente simbolico, della Rivoluzione, punto e fine. Se si cerca la verità più autentica e profonda sul 25 Aprile, si può forse trovarla nella dignità con cui morirono i combattenti della Resistenza. Nelle loro lettere scritte in punto di morte, e indirizzate a madri, padri, parenti, amici, mogli. “Non ho paura della morte, sono forse per questo un Eroe? Niente affatto... sono tranquillo perché ho la coscienza pulita... lottando per la Grande e Santa Causa della liberazione dell'Umanità oppressa”: Eusebio Giambone, tornitore, 40 anni. “Debbo giudicare che sono sempre stato un fallito... si muore in tanti ogni giorno ed i più innocentemente; io almeno ho combattuto”: Giuseppe Perotti, 48 anni, generale del Genio. “Ho chiesto se potevo avanzare domanda di grazia... non mi sarei mai piegato a questo atto di sottomissione o comunque di umiliazione di fronte allo straniero... ma dinanzi ai miei occhi, in quel momento, vi eri tu, mia diletta e sfortunata compagna ed i miei figli, mio padre, i tuoi genitori, i miei fratelli ed i tuoi... e qualcosa pur vi dovevo”: Pietro Benedetti, 41 anni, ebanista.
Di missive così ne scrissero anche i combattenti della Repubblica di Salò, i cosiddetti repubblichini. Sono messaggi umanissimi, commoventi, che si dovrebbero leggere per riaversi dall’astrattezza dei pistolotti cerimoniali e dell’antifascismo ottuso, facile e di maniera. Farebbero capire che, prima delle distinzioni storiche che vietano le ambigue equiparazioni, sta il valore del singolo, il suo coraggio, la sua dirittura, la sua coerenza, il dolore e la pace di quando l'esistenza é nuda di fronte a sé e viene illuminata dall’approssimarsi all’estremo nulla, nelle ore finali in cui si stila l’ultimo bilancio e la paura, per paradosso, svanisce. Erano uomini, quelli, non parodie d’uomini. Si sapeva ancora morire per qualcosa, allora. Oggi non più. “Cara mamma, non ho fatto che rievocare tutta la mia vita da quando ero bambino ed ora recrimino una cosa sola, tutto il tempo che non ti sono stato vicino, perdonami mamma... non ho saputo vivere, mamma, so morire. TUTTO E' PRONTO”. Si chiamava Domenico Cane, aveva trent’anni.