“Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica: gli italiani fanno meno figli e li sostituiamo con qualcun altro. Non è quella la strada”. Così parlò Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare e cognato di Giorgia Meloni, al congresso del sindacato Cisal a proposito del crollo demografico collegato all’immigrazione. Mal gliene incolse, perché al solo sillabare l’espressione sostituzione etnica si è scatenato il prevedibile putiferio: “parole indegne che riportano agli anni ’30 e che sanno di suprematismo bianco”, ha cannoneggiato la segretaria del Pd, Elly Schlein; “rilancia la teoria della razza”, bombarda il segretario di +Europa, Riccardo Magi, e ci fermiamo solo a due esempi. Lollobrigida, che sul piano comunicativo ha manifestamente pestato una buccia di cane, ha cercato subito di rimediare con un video sui social in cui però alla fine ribadisce quanto detto: “Tutte le etnie sono degne di rispetto, compresa la nostra che intendiamo difendere”. Perché questa insistenza? Perché l’idea di una sostituzione degli italiani intesa come fenomeno storico da contrastare, è entrata nel bagaglio concettuale della destra, non solo italiana, da un buon decennio a questa parte. È diventata, cioè, parte integrante della carta d’identità dei sovranisti, neo-nazionalisti, “patrioti” o come si preferisca chiamarli. A Lollobrigida, in un certo, “è scappata” per la semplice ragione che è uno dei punti divenuti fondamentali nel pensiero corrente di destra (o del pensiero “identitario”, come si autodefinisce, spesso rifiutando lo stesso posizionamento a destra).
In cosa consista realmente la tesi della sostituzione è materia ricorrente di radiografie il più delle volte generiche e abborracciate. La si qualifica come “teoria del complotto”, si cita il famigerato Piano Kalergi, si compie un automatico accostamento con il razzismo biologico nazifascista, la si riconduce ai suprematisti statunitensi. In generale, si nega che il fatto esista, ovvero che non vi sia la volontà di parte di qualcuno di rimpiazzare gli autoctoni con gli allogeni, nel nostro caso gli italiani di nascita e di discendenza con gli stranieri. Ma si dà credito, anche più del dovuto, alla validità di una teorizzazione che invece non è così delineata come si crede, in quanto non ha ideologi di peso che l’hanno formulata in maniera, per così dire, scientifica, sistematica (eccezion fatta, come vedremo, per uno solo, circoscritto a una realtà nazionale del tutto particolare). Le stesse origini della formula sono “piuttosto incerte”, come scrive quest’oggi una testata non certo sospettabile di simpatie anti-immigrazioniste come il Post. Il primo su cui tutte le fonti concordano nell’attribuire una paternità, o per lo meno ad averla diffusa, non è un teorico ma un letterato, il romanziere francese Jean Raspail in una sua opera del 1973, intitolata “Il campo dei santi”, distopia in cui l’Europa viene colonizzata da popolazioni asiatiche sostituendone, appunto, gli abitanti. In ambito americano, invece, una maggiore influenza ha avuto “I diari di Turner” di William Luther Pierce, del 1978, in cui gli Usa sono teatro di una nuova guerra civile in cui i bianchi corrono il pericolo di essere eliminati dagli altri ceppi razziali.
Ma se l’arte può essere anticipatrice, non è però sufficiente per rappresentare una concezione coerentemente costruita per offrire una visione politica vera e propria. A fornirla ci pensò, per il continente europeo, un altro francese, l’accademico Renaud Camus, con il saggio del 2011 “La grande sostituzione: introduzione al rimpiazzo globale” (remplacisme, nell’originale). Intellettuale riconosciuto, con frequentazioni nelle avanguardie e nel mondo culturale degli anni ’60, da Andy Warhol a Roland Barthes, scopertamente omosessuale, filo-israeliano, Camus nel libro si occupa in verità esclusivamente del suo Paese, la Francia, spiegando come e perché rischi di finire colonizzata dagli immigrati delle ex colonie, paragonando il meticciato alla scomparsa, anzi, per l’esattezza, al genocidio dell’etnia francese. È il suo il solo testo di riferimento per le destre identitarie d’Europa, ritagliato per un contesto particolare com’è la Francia, che ha avuto politica tutta sull’integrazione (assimilazionismo), ben più dell’estremista di destra austriaco Gerard Honsik a cui, almeno secondo le ricostruzioni più diffuse, si deve il ripescaggio del progetto di Richard Nikolaus Eijiro conte di Coudenhove-Kalergi. Stravagante aristocratico per metà, anche lui, austriaco e per metà giapponese, negli anni ’20 si inventò il “paneuropeismo”: nel “Manifesto Paneuropeo” (pan, cioè “tutto”, come a dire un’Europa soggetto unico, un tutt’uno) lanciò per primo l’ipotesi di unificare gli Stati europei in modo da superare le differenze fra i popoli. Una costruzione del tutto ideale, per i tempi, che si è trasformata in una sorta di luogo comune retorico, una citazione obbligata per certi nemici della “sostituzione”, come se Kalergi avesse avuto un’effettiva importanza nell’ispirare seriamente, per altro a loro insaputa, non solo i fondatori della futura Ue, ma perfino i sostenitori odierni dell’immigrazione (di cui Kalergi non poteva immaginare lo sviluppo, di parecchi decenni in avanti).
Se vogliamo mettere in fila i fatti verificati e verificabili, dovremmo piuttosto affermare che: 1) la sostituzione etnica, o grande sostituzione, come detto rappresenta un presupposto ideologico delle destre di impronta identitaria anzitutto perché, retoricamente parlando, è un’idea-forza di immediata comprensione, di facile impatto, anche se presenta il difetto enorme di costituire una “trappola cognitiva”, ossia non appena venga usata, per esempio in un discorso come ha fatto Lollobrigida, fa scattare le reazioni, per carità legittime, di chi non conosce bene di cosa si tratti, e allora vai con la reductio ad nazismus che invece qui non c’entra niente, dal momento che, come per Kalergi, anche per Hitler lo scenario di migrazioni era di là da venire, e l’antisemitismo possedeva un valore mostruosamente più titanico, addirittura escatologico, da guerra totale, che oggi per fortuna può albergare solo nella mente di qualche spostato, e particolarmente sfigato, che vive di incubi passati; 2) gli stessi assertori della sostituzione, a cominciare da Camus (che, alle nostre latitutidini, l’ha dichiarato in un’intervista a Libero nel 2015), non pensano che essa corrisponda a un complotto premeditato da finanza o poteri per vie occulte, come il solito George Soros che non è occulto per niente, dicendo e scrivendo quel che pensa, e come gli altri finanziatori di ong e associazioni, generalmente noti, ma a “giganteschi meccanismi storici, economici e ideologici, e anche ontologici, in seno ai quali le istituzioni e gli uomini sono solo degli ingranaggi fra tanti altri”.
In sostanza, non c’è una Spectre che un brutto giorno si è riunita, o che si riunisce periodicamente, per spostare sulla mappa masse di migranti da un capo all’altro del globo (a meno di non voler considerar tali circoli come il Bilderberg, che sono cenacoli di potenti per fare affari fra di loro e darsi di gomito nelle rispettive, a volte divergenti strategie). Ci sono senz’altro interessi di varia natura, primi fra tutti i bisogni dell’economia, su cui gli imprenditori a ogni tot lamentano l’inefficienza riguardo ai flussi d’entrata, per aver garantita manodopera a buon mercato (secondo la teoria di Karl Marx sull’“esercito industriale di riserva”). Se aggiungiamo la cultura cosmopolita dominante nell’establishment mediatico e intellettuale – e dominante non significa maggioritario, né totalitario, significa prevalente, trainante – si ha il quadro di una spinta a doppia trazione: da un lato lo sradicamento obiettivo, basti pensa all’Africa, con le conseguenze perverse della globalizzazione (cacciata delle popolazioni dalle terre coltivabili da parte delle multinazionali, impoverimento per l’ingresso nell’ultracompetitivo business mondiale, strozzinaggi finanziari agli Stati a opera di istituti-capestro quali Wto e Fmi); dall’altro, l’egemonia del pensiero liberal, declinato anche a destra nel versante liberal-liberista, secondo il quale i confini sono astrazioni anacronistiche e il mondo dovrebbe diventare uno spazio liscio e uniforme, un immenso unico mercato in cui donne e uomini condividono con le merci l’interscambiabilità.
“Questa immonda vaccata, questa idiozia sesquipedale, questa minchiata fotonica” (Luca Bottura, La Stampa, 19 aprile 2023) che sarebbe la bandiera della sostituzione, trova paradossalmente i suoi più entusiasti corifei in coloro che con orrore la liquidano come becero complottismo e razzismo neppure tanto mascherato. A caldeggiare, con tutto l’ardore che si tributa agli articoli di fede, l’afflusso di immigrati perché ci servono, perché assolvono al compito - che è una nostra esigenza, ancor prima che la loro - di colmare a basso costo i vuoti di personale lavorativo e, conseguentemente, di finanziare il nostro claudicante sistema pensionistico, sono proprio gli appartenenti al variegato universo che va dalla sinistra di diverse sfumature ai cattolici di vario segno (eccetto quelli di destra, va da sé) fino, come si diceva, ai datori di lavoro costretti, poverini, a sostituire i lavoratori locali con quelli forestieri così da mantenere compensi da Terzo Mondo, se non peggio (capolarato, ritmi da miniera, ecc). L’obiezione è che il sogno di ogni buon amico dei migranti sarebbe innalzare i diritti sociali anche ai nuovi venuti. Ma domandiamo: è realistico, e soprattutto, è corretto e giusto nei loro confronti immetterli nel circuito economico sapendo benissimo che precarietà e sottopaghe li condannano, come condannano noi italiani, a sostituirci già di fatto nelle attività meno qualificate, più faticose e meno retribuite? La combinazione di denatalità, di cui l’Italia vanta il mesto record, e di processi migratori di carattere strutturale fanno della tendenza “tappabuchi” una dinamo oggettiva, non una pianificazione di chissà chi dall’alto. Più che a volere e a voler manovrare, c’è chi alimenta e gira a proprio vantaggio un’immane forza storica che al massimo un governo può, e deve, tentare di governare, ponendo limiti senza bisogno di riesumare profeti alla Kalergi o abbandonarsi mentalmente a film apocalittici, buoni al massimo per fantasie letterarie o slogan a presa rapida. La sostituzione, principalmente dovuta a motivi economici, è fattuale. C’è già. Tramutarla in vessillo o spauracchio significa strumentalizzare le sventure di tutti, nostre e di chi viene considerato, con razzismo inconsapevole, uno strumento, un qualcosa che deve servirci…