C’è chi la chiama realpolitik, quel realismo politico che è necessario guidi un capo di governo costringendolo a parlare anche con il diavolo in persona, se può servire al proprio Paese. Altri potrebbero dire che Giorgia Meloni, incontrando il 4 maggio a Roma il generale libico Khalifa Haftar, il padrone della Cirenaica, abbia di fatto legittimato un signore della guerra, che usa gli immigrati che partono dalle coste sotto il suo controllo come arma di ricatto per fare pressioni. Il che, in effetti, è precisamente l’obiettivo politico dell’uomo forte di Tobruk: essere riconosciuto come formale interlocutore a livello internazionale. Con gran dispetto del rivale Abdelhamid Dbeibah, primo ministro dell’esecutivo di Tripoli che gode del riconoscimento delle cancellerie occidentali.
Nelle due ore di colloquio di giovedì, che seguivano all’incontro del giorno prima con il nostro ministro degli Esteri Antonio Tajani, la Meloni e Haftar hanno infatti parlato di immigrazione: quest’anno dalla Cirenaica, la parte est della Libia governata dal generale, le partenze sono state 10 mila, quasi il doppio di quelle dalla Tripolitania, sotto la potestà del governo ufficiale. È la rotta, lunga e rischiosa, su cui si sono spostate le navi di alcune Ong, e che termina sulle rive della Sicilia e della Calabria. Il pericolo imminente è che venga ingrossata dall’afflusso di sudanesi, in fuga da un Sudan sempre più destabilizzato dopo il colpo di Stato del generale Dagalo. In sostanza, sembra che la premier abbia chiesto a Haftar cosa vuole in cambio di un’azione più decisa per calmierare il traffico di esseri umani in mano alle organizzazioni di scafisti.
Il 28 gennaio scorso si sarebbero giù dovuti vedere, la Meloni e Haftar, ma il summit saltò presumibilmente perché l’Italia non voleva, e con tutta probabilità non vorrebbe neanche adesso, sbilanciarsi a dare il proprio appoggio al ras militare per farlo partecipare alle elezioni generali dell’intera Libia, che l’Onu punterebbe a indire entro il 2023. Un passo, però, che potrebbe concretizzarsi per ragioni di politica interna: il centrodestra a Palazzo Chigi ha il vitale bisogno di non vedersi sbugiardato nelle sue promesse di tolleranza zero verso gli sbarchi di migranti. Di qui la via obbligata a confrontarsi e negoziare, o quanto meno a vedere ciascuno le carte dell’altro. E di qui, inoltre, la reazione di scherno da parte della Francia (la Meloni “non è in grado di risolvere i problemi migratori”, ha detto sprezzante il ministro macroniano Gerald Darmanin), perché Parigi sta pensando da qualche tempo di ospitare una Conferenza sulla guerra civile libica, e la mossa italiana è stata avvertita come uno sgambetto.
Ma chi è, esattamente, Khalifa Haftar? La sua storia pubblica comincia nel 1969, quando, giovane ufficiale, prende parte al golpe che detronizzò re Idris e portò poi al potere Gheddafi. Una volta divenuto dittatore di fatto della Libia, questi nomina il fido consigliere Haftar comandante delle forze armate e, successivamente, lo mette a capo della campagna contro i ribelli del Ciad. Nel 1987, Haftar venne fatto prigioniero. A quel punto Gheddafi, vista la mala parata, lo disconosce. Terminata la prigionia, l’ex numero due del regime, nel frattempo colpito da una condanna a morte in contumacia per “crimini contro la Repubblica libica”, cova la vendetta: esiliatosi per quasi vent’anni negli Stati Uniti, di cui prende la cittadinanza, e forse non casualmente a due passi dal quartier generale della Cia a Langley, in Virginia, torna alla ribalta dopo la deposizione di Gheddafi nel 2011, in quella “primavera araba” facilitata dalle bombe francesi e inglesi (con il via libera americano e le basi aeree italiane).
Sale così al vertice del nuovo esercito libico, per l’esattezza alla posizione numero 3, ma nel volgere di qualche anno “si mette in proprio”: grazie, in particolare, al supporto politico e militare del confinante Egitto (e poi di Emirati Arabi, Arabia Saudita e anche Russia, che ha alcune basi del gruppo Wagner nella sua zona d’influenza), nel 2015 diventa ministro della Difesa e capo di Stato Maggiore di uno dei due governi, quello di Tobruk, in cui si scompone il Paese. Ma in realtà a comandare è solo lui, che da allora fino ad oggi non ha mai attribuito alcuna legittimità a Tripoli, benché quest’ultimo sia l’unico riconosciuto dalle Nazioni Unite, nonché appoggiato dall’Occidente, dalla Turchia e dal Qatar. Il suo sogno è da sempre, in sostanza, divenire il nuovo Gheddafi. Questa volta, magari, con una differenza, rispetto al dittatore torturato e sodomizzato più di dieci anni fa: non avere, almeno nelle intenzioni, gli Stati Uniti come nemico mortale.