Responsabilità o colpa, giustizia o vendetta, caso singolo o problema sociale. Nel dibattito che segue a casi come quello di Giulia Cecchettin e Filippo Turetta i poli di queste contrapposizioni si sovrappongono: memorie di chi conosceva il ragazzo e sensazioni di chi aveva intuito che qualcosa non andava alternano momenti di sconforto a quelli di lucidità, in cui viene da pensare che sì, la tragedia era evitabile. Lorenzo Gasparrini è un "filosofo femminista" che lavora da anni per riordinare i pezzi di un puzzle che, purtroppo, spesso troviamo di nuovo in disordine. Talvolta una strada verso il giusto inquadramento del problema, che è il maschile e non l’uomo, sembra all’orizzonte, ma ecco che il varco si chiude di nuovo: prende parola la pancia, la rabbia di uomini in rivolta contro il singolo femminicida, colpevole di macchiare indelebilmente la fedina penale di un genere. “Io non sono come Filippo”: fortunatamente, la maggior parte delle volte questo è in larga parte vero. Ci mancherebbe altro. Occorre focalizzarsi, però, su ciò che di comune c’è tra gli “innocenti” e quelli come Filippo: una storia, una considerazione di sé e delle donne, una strisciante forma di violenza che è diventata abitudine, battute che non sono solo battute. Inutile crocifiggersi: cosa possiamo fare per cambiare le cose? Cosa possiamo dire per interrompere l’escalation di violenza che scivola verso la morte? “La prevenzione non la puoi fare su te stesso, perché ti serve quell'altro o quell'altra che ti dice guarda che questa cosa che hai fatto, questa cosa che hai detto non va bene”. Per questo Gasparrini non giudica il padre di Filippo, sinceramente convinto della bontà del figlio. Miope, come molti genitori, rispetto a quel lato non mostruoso, ma tremendamente ordinario da diventare invisibile. “Dobbiamo imparare a interpretare i segnali”: impossibile non provare gelosia, dice Gasparrini. Ciò che possiamo fare, piuttosto, è controllare il modo in cui questa emozione la usiamo, perché è questo ciò che impatta sulla società, le altre persone, le donne. Le donne che urlano la loro rabbia, come ha fatto Elena Cecchettin, sorella della vittima. Non per vendetta, sottolinea il filosofo, ma per stanchezza: la necessità di stare a occhi aperti, di dire o fare qualcosa di irritante. Che fare, dunque? Contro la castrazione e lo spettacolo volgare della punizione ad effetto, imparare a leggere tra le righe diventa centrale. Vedere che dietro l’omicidio di Giulia non c’è l’anormale o il mostruoso, ma, al contrario, la semplice indifferenza.
Lorenzo Gasparrini, può inquadrare il caso di Giulia Cecchettin? È un caso tipico oppure ci sono delle peculiarità?
Dagli elementi che emergono, che si vedono, è assolutamente tipico. Quello che non è tipico è stato che l'interesse pubblico è rimasto su questa vicenda acceso per molti giorni. Non sono giorni qualunque ma sono quelli di arrivo al 25 novembre (la giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, nda) e sicuramente l'insieme di queste cose ha sollevato un interesse generale che non si era registrato in altri casi ugualmente efferati. In più questa cosa è accaduta tra due persone molto giovani. Ci sono ancora molte cose da chiarire e la speranza è che si cominci a parlare di questi argomenti e a tenere alto l'interesse al di là delle giornate come il 25 novembre.
La politica ha delle responsabilità in quello che è accaduto?
Ha un’enorme responsabilità: chi come me lavora su questi argomenti da molto tempo non può non notare una palese ipocrisia nel dire oggi, da parte di molte fonti istituzionali di altissimo livello, “queste cose dovrebbero essere fatte a scuola”. Qualcuno lo sta dicendo da 50 anni. Nel frattempo, di donne morte ammazzate ne abbiamo avute centinaia. Non dico che è sospetta questa cosa, però, per favore, non fate gli eroi perché in realtà il problema sociale è in piedi da un bel po’. È responsabilità politica proprio perché è un problema sociale.
Molti parlano di eccezione più che di questione sociale.
Questo è, appunto, parte del problema. Deve essere un argomento politico perché non stiamo parlando della persona pazza, folle, mostruosa, l'eccezione della società. È un po' come certi fenomeni atmosferici: effettivamente è abbastanza imprevedibile, difficilissimo capire dove e quando accadrà. Ma questo non è del tutto vero. In realtà gli ingredienti culturali per individuare queste cose ce li abbiamo. E se non sappiamo, ovviamente, dove e come un fatto del genere può accadere, sappiamo che sicuramente accadrà. Quando moltissime donne oggi stanno dicendo che sapevano che sarebbe andata così non parlano di oroscopi o di capacità di prevedere il futuro: queste cose le hanno viste mille volte nelle loro vite e sanno benissimo di che cosa si tratta.
Perché non sfruttiamo le competenze che ci sono su questi temi?
Eccola la responsabilità politica. I problemi culturali, per quanto complessi, tutto sono tranne che cose eccezionali e mostruose. È proprio nella loro natura. Una volta che abbiamo riconosciuto che il problema è culturale, allora sei sicuro che non si tratta di squilibrati, che pure ci sono, ma in altre tipologie, in altre situazioni. È un problema che si conosce da molto tempo e vanno attuate delle misure che devono coinvolgere anche la politica, proprio perché devono essere fatte su larga scala, devono essere parte della nostra cultura.
Ci sono state delle mancanze anche da parte dei genitori di Filippo?
Io non li condanno in nessun modo. Il fatto è che mancano anche a loro degli strumenti di interpretazione. Questo vale per tutte le famiglie e non solo per quella di Filippo. Tutti si chiederanno se non avrebbero potuto fare qualche cosa in più. Da una parte la risposta è sì, certo che potevi fare qualcosa, visto che eri lì. D’altra parte però no, non potevi farci nulla: perché non sei conscio che certi atteggiamenti fanno parte della cultura nella quale sei immerso. Anche se accadono davanti ai tuoi occhi, alcune cose non le vedi. Giustamente come il padre di Filippo dice “per me era il ragazzo migliore del mondo”. Sono sicuro che è sincero. Il fatto è che gli manca la capacità di vedere un'altra parte della persona che è suo figlio. E non gli manca perché è stupido, incapace o ignorante. Perché noi socialmente queste cose le riteniamo non importanti, ma circolano invece nelle nostre relazioni quotidiane.
C’è differenza tra una gelosia, chiamiamola normale, e l'eccesso? O la gelosia “ordinaria” è già di per sé un segnale d'allarme?
La parola giusta è segnale. Non posso impedirmi di provare certe cose. Il vissuto non si discute mai. Non si può dire a qualcuno che non deve essere geloso. Il problema è cosa ci fai poi con questa emozione che hai provato. Si può imparare che questa cosa è sbagliata.
Sbagliata in che senso?
Non che non la devo provare, ma se mi motiva un'azione di controllo, un'azione di disturbo, un'azione di rabbia, è lì che invece la posso intercettare. Sono geloso perché ho come dato culturale il fatto che quando provo dei sentimenti verso una persona è come se ne avessi possesso. Questa cosa non va bene, il possesso non c'entra con i sentimenti. La persona con la quale sto dice qualcosa di anche su me. Allora quando lei, per dei motivi che sono assolutamente suoi, prende una decisione che riguarda la sua vita, questa cosa riguarda anche la mia, cioè giudica anche la mia.
Nel caso di Giulia era la laurea.
Sì: lei si laurea prima, lei guadagna di più, lei fa una vita sociale più brillante della mia. Non è che mi deve far piacere per forza se la mia compagna guadagna molto di più, ma non deve essere vissuto come un giudizio sulla mia vita. Questo fa tutta la differenza del mondo. Il vissuto ci può stare in una situazione difficile, che mi fa un po' rodere. Questo ci può stare. Diventa un giudizio sulla mia vita? No. Diventa la motivazione di un abuso sulla sua vita? No. Questo non deve accadere.
Ha sottolineato l'età dei ragazzi: visto che lei lavora con le scuole, vede peggiorare nelle nuove generazioni certe dinamiche di competizione e di giudizio sulla propria vita?
Non credo che sia peggiore o migliore di altre epoche. Avere a che fare con i giovani ti fa vedere come certi problemi sociali legati al razzismo, o alla differenza di classe sociale-economica, effettivamente sembrano superati. Ci sono certe cose che veramente non sono più importanti. Da dove vieni, il colore della tua pelle, se tu ti puoi permettere tre mesi di vacanza e io no: queste cose sembrano non essere più rilevanti. Altre, tipo la gelosia, il possesso, la continua ansia da performance nelle relazioni sentimentali, quelle ci sono ancora. Lì capisci dove sta la mancanza di una cultura diffusa.
L’informazione sui social influisce su tutto questo?
I giovani sono immersi in un mondo dove gli stimoli, le comunicazioni, le informazioni sono infinitamente superiori rispetto alle generazioni precedenti. Questa cosa è nociva, perché queste informazioni sbagliate, questi dati culturali non trasmessi, ti arrivano come un'enorme valanga. Non li sai gestire ed è chiaro che qui la differenza generazionale si sente. Chi è più adulto non si trovava in quella situazione da giovane. Oggi ci troviamo in mezzo a una tempesta di informazioni sbagliate, di dati non correttamente ricevibili, di modelli non giustamente interpretabili. Bisogna dargli di corsa degli strumenti migliori perché evidentemente non sono arrivati. Servono cose diverse da quelle che la generazione precedente usava.
Eppure, di paternalismo se ne percepisce eccome…
Tutti discorsi inutili, sbagliati: non c'era niente di paragonabile. Anche solo 20 anni fa non stavi in mezzo a questa tempesta che continuamente mette alla prova con modelli, con informazioni, con bisogni. Questa roba non c'era, i paragoni non reggono. Dobbiamo darci da fare ad affrontare questi momenti nuovi.
Dopo questi eventi ci si divide tra chi dice “tutti gli uomini” e chi dice “io non sono come lui”. Vuole chiarire questa differenza?
Da una parte è ovvio: certo che non sei come lui, tu non hai ammazzato nessuno. La seconda cosa altrettanto ovvia è che questa risposta non c'entra niente, perché al contrario di quello che ancora troppi uomini pensano, non si tratta di darsi una colpa collettiva, che non ha senso. Il colpevole fa una cosa, ci potrà essere un complice in qualche caso, ma ovviamente non sei tu. Bisogna essere responsabili, cioè renderti conto che quell'azione, anche fatta da un solo uomo, dice qualcosa su tutto il genere maschile. È quello il problema. E tu che fai parte di questo genere, che ti piaccia o meno, ti devi prendere questa responsabilità. Non basta dirlo, perché a dirlo sono buoni tutti.
E allora che fare?
I maschi devono chiedersi: lo fermi il tuo amico che fa una battuta pesante, te la prendi con chi fischia per strada o fa dei cosiddetti complimenti a una donna che passa? Te la prendi col collega che pensa che l'altra collega ha fatto carriera grazie al suo corpo? Questo significa fare qualcosa, cioè creare un'immagine diversa del maschile. Dire che non si è violenti non serve a niente, perché poi magari quel tipo di violenza la trasmetti, passa attraverso di te. Il problema delle questioni culturali e sociali è che nessuno può chiamarsi fuori. La solita metafora che si fa sempre: cammini di notte per strada e incroci una donna che sta camminando come te e quella cambia marciapiede. Tu non sei violento, tu non ammazzi nessuno, tu sei la persona migliore del mondo, ma quella cambia marciapiede. Perché il tuo corpo si porta appresso una certa idea che è data da chi si comporta in un certo modo. Non puoi biasimarla, no? E allora devi fare qualche cosa.
Valeria Fonte ha fatto un titolo di cui si è discusso molto: “Tutti gli uomini pensano come un femminicida”. Lei cosa ne pensa?
Con Valeria ne abbiamo parlato un bel po’. Se da un punto di vista giornalistico l'operazione può essere discussa, purtroppo il senso delle parole che lei dice centrano il problema. Pochissimi uomini apertamente contestano questa idea di maschile. Non l’ha inventata lei. Prendersela con lei, che l'ha semplicemente espressa, significa non capire, di nuovo, il problema sociale. Quell'idea è già in giro, è quello che è già il dato sociale. Se non ti piace, non te la prendere con Valeria Fonte. Fai qualcosa che smentisca quell’idea. Lei ha fatto un lavoro giornalistico, ripeto, che può essere discutibile. Ma come dico sempre, il problema non è la differenza tra me e un femminicida, che è evidente: quello ha ammazzato, io no. Il problema ciò che abbiamo in comune. Abbiamo visto gli stessi film, abbiamo ricevuto dai nostri genitori gli stessi insegnamenti, vissuto nello stesso contesto sociale. Quello è il problema di cui ci dobbiamo occupare. Perché poi la differenza tra me e il femminicida, quando vado a vedere queste cose, è minima.
Qualcuno obietterebbe che statisticamente sono pochi i casi che finiscono con l’omicidio, mentre sono molte di più le relazioni civili e sane.
Purtroppo, questa che tu hai appena descritto è un'immagine sbagliata. Quando confronti i dati tu scopri che non è vero che la maggior parte delle coppie sta benissimo: c’è semmai una parte che assorbe la violenza. Ma quella non è una coppia che sta bene. Non vuol dire che tutti devono finire con un femminicidio. Ma quante volte episodi che sono su quella strada sono classificati come cose normali nel rapporto. Invece non lo sono per niente. Certo che la maggior parte delle coppie non si ammazza, ci mancherebbe altro. Ma anche se succedesse una sola volta all'anno, è quello che socialmente si chiama sintomo, si chiama cima della piramide. E quel fenomeno deve illuminare ciò che sta sotto. Forse nelle dinamiche di coppia sottovalutiamo troppe cose. Di nuovo: non significa incolparsi tutti. Significa darsi degli strumenti migliori, capire più profondamente certe cose e intercettarle subito.
Il conflitto però non sempre è evitabile.
Il conflitto di per sé non è evitabile, no. Lo dobbiamo saper gestire in modo che non prenda quella strada troppo violenta. Se una sola delle due parti subisce solo per non far scoppiare il conflitto, non vuol dire che le cose vadano bene. Dire che la maggior parte delle coppie non finisce male letteralmente non vuol dire nulla. Com'è possibile che un numero straordinario di donne abbia subito violenze e molestie? Questo buco nelle informazioni viene da lì, dal fatto che certe cose non le riconosciamo.
Lo stupro o il femminicidio sono l’esito estremo di una serie di comportamenti. Lei è d'accordo nell'usare il termine stupro in maniera estesa, comprendendo tutti i passaggi di quella degenerazione?
Sicuramente non è positivo. Ogni tanto la parola stupro si sente pure nelle cronache sportive… Cioè stiamo veramente un pochino esagerando. Però l'espressione “cultura dello stupro” ha senso, viene da un tipo di studi che significa una cosa precisa. La parte problematica di questa formula non è “stupro”, è “cultura”. Ciò significa che un certo dato è diventato patrimonio comune, elemento culturale. Quella è la cosa problematica. Certamente la parola stupro deve essere usata solo in certi casi e ricordarci che, appunto, è un livello di una scala di molestie che non è che valgono di meno o funzionano di meno, ma bisogna anche quelle chiamarle col loro nome. Se chiamiamo tutto stupro, niente, è stupro.
Anche gli uomini subiscono violenza di genere?
Certo, dobbiamo imparare a riconoscere tutte le forme di molestie diverse, saperle nominare, saperle riconoscere. Anche gli uomini possono essere violentati e subire violenze di genere, nessuno l’ha mai negato. Quanti uomini sul lavoro, dal loro capo, dai loro colleghi, subiscono violenze di genere e non le chiamano così, non le sanno vedere. Colpiscono la loro idea di maschilità, la loro idea di virilità, la loro idea di potenza sociale che è legata all’identità maschile. Non te ne accorgi che questa roba fa male. Dobbiamo dire no: posso avere sbagliato, posso avere fatto questa cosa che non va bene sul lavoro, ma lascia stare il mio sesso, lascia stare il mio genere, lascia stare la mia identità di genere che non c'entra a niente. Siamo in grado di farlo?
Emerge spesso la parola riconoscimento: come si coordinano prevenzione e stato di diritto, presunzione di innocenza e tutela della sicurezza?
Abbiamo in testa un'immagine di prevenzione un po’ fuorviante. L'idea che, conosciuti gli elementi scatenanti di un effetto, io possa intercettarne le cause sempre e comunque è sbagliata. Nei problemi sociali e culturali non funziona così: in realtà tu non sai da dove viene precisamente questo effetto nocivo e quale degli ingredienti avrà più peso nel farlo scatenare. Per questo si usa l'espressione tossicità: in piccolissime quantità non fa neanche male. Poi la assimili e non ti accorgi da dove arriva, e a un certo punto nell'organismo comincia a fare male. Ma non sai qual è il livello di tolleranza, perché ogni corpo è differente. Un po' come l'alcol: la stessa quantità a qualcuno non fa niente, mentre un altro è già ubriaco. Le sostanze tossiche funzionano così. Non puoi prevenirle con la certezza con la quale previeni o combatti una malattia, un virus, un batterio.
Di nuovo: che fare?
Ci dobbiamo dotare socialmente di strumenti molto più raffinati e dobbiamo accettare di usarli insieme, l'uno sull'altro. Ecco, la prevenzione non la puoi fare tu su te stesso, perché ti serve quell'altro o quell'altra che ti dice guarda che questa cosa che hai fatto, questa cosa che hai detto non va bene. Non è qualcosa di umiliante, perché è socialmente che si combattono questi problemi. Quindi mi serve che l'altro mi sappia avvertire di certe cose. E la difficoltà sta anche qui, perché dobbiamo accettare questa sorta di umiltà.
Parlando delle reazioni rispetto al caso di Giulia Cecchettin. Come giudica coloro che, come Matteo Salvini, parlano di ergastolo, di castrazione chimica?
Ce lo siamo detto prima: il vissuto è indiscutibile, il modo di reazione è assolutamente spontaneo. Poi dobbiamo però vedere a livello sociale cosa ci facciamo con questa reazione. Abbiamo delle leggi, vanno applicate, faranno il loro corso. Inventarsi la soluzione, tra virgolette, spettacolare della castrazione chimica non ha mai funzionato. Non c'entra niente, perché se il problema è culturale io non reagisco sul corpo della persona. È una questione di potere, di gestione di rapporti, di forze che riguardano la costruzione della tua identità.
Cambia il discorso se certe reazioni vengono dalle donne?
Sì. È diverso perché c'è un gruppo sociale che ha imparato da decenni ad avvertire questi fenomeni come rilevanti, quindi si unisce. Un'altra parte della società, quella maschile, ancora non è in grado di capire questi avvenimenti e quindi magari reagisce contro l'individuo, colpendo il singolo senza capire dove sta la dimensione sociale del problema.
Si parla sempre di scuola in questi casi: concretamente cosa si può fare?
Per quella che è la mia esperienza, posso dire con certezza che ragazzi e ragazze sono interessatissimi a questi argomenti, li sentono molto presenti nella loro vita e si accorgono che sono cose difficili da gestire. Il problema è che non sanno come fare. Allora tu vai lì e proponi storie e modelli alternativi. Gli strumenti sono tanti: dai giochi che si possono fare con il linguaggio, lavorando sugli insulti, sulle parolacce, al teatro, cioè mettere in scena azioni di un certo tipo e fermarle, farli ragionare su quello che succede. Raccontare storie di lotta per i diritti che purtroppo nei loro libri non hanno, che non sanno che sono percorribili e che hanno funzionato. Oppure raccontargli meglio delle storie che per un certo dato culturale gli arrivano molto male.
Che tipo di storie?
Faccio un esempio stupido ma è una cosa che ho fatto in una scuola. C'è ancora in giro questa idea che Giulietta e Romeo sia una bellissima storia d’amore. In realtà i due alla fine muoiono. Sono adolescenti che lottano contro un sistema sociale che li vuole separati e lottano credendo in questo ideale di amore romantico, fino alla morte. Shakespeare, che era un genio, sta dicendo questo. La scena del balcone non è la scena finale. Conoscere più a fondo certe storie ci aiuterebbe molto. E non vuol dire per forza grandi poeti e letterati.
A chi si riferisce?
Alle persone non etero e le persone transgender, perché nella vita che hanno dovuto vivere queste situazioni di scontro molto più di frequente e hanno un enorme bagaglio di esperienze in più, molto utili alle persone etero, che certi problemi manco se li pongono. Ci sono già le persone che potrebbero parlare, che potrebbero raccontare.
Tornando invece a Giulia Cecchettin: posto che nessuno ha l'autorità di valutare le reazioni degli interessati, Elena Cecchettin secondo lei ha detto delle cose giuste?
Elena ha detto quello che tantissime persone, me compreso, dicono da anni. Brava che le sa! Il suo discorso è semplicemente impeccabile. A qualcuno sarà sembrata troppo arrabbiata, troppo vendicativa, ma dobbiamo ricordarci quelle parole da dove vengono. Non è vendetta, è qualcuno che vuole cominciare a vivere in pace, tranquillamente. È qualcuna che non ne può più di avere una vita che deve essere controllata e deve essere misurata per paura di questioni sociali che nessuno sta affrontando. Eccola dove è la rabbia. Dobbiamo smettere di credere che c'è questo mondo che ce l'ha con gli uomini. Non sono gli uomini il problema, il problema è il maschile e c'è una bella differenza. È l'idea sociale che condividiamo di come funziona il maschile che non sta funzionando e sta cominciando a fare grossi danni. E di quella ci dobbiamo curare.
Lei è un filosofo femminista, qual è il senso di questa definizione?
Io per onestà intellettuale mi devo definire per le cose che studio e che racconto. Io sono cresciuto in un ambito dove queste cose le ho dovute studiare per conto mio perché mi venivano espressamente proibite dai professori ordinari. C'è ancora nel mondo accademico questa grossissima ipocrisia di fondo. I femminismi sono sicuramente innanzitutto pratiche di libertà, lotte, ma tutta la teoria importantissima che si è fatta sopra è filosofia, è riflessione sugli esseri umani, sul senso della loro esistenza, su come poterla fare interagire senza conflitti. Se il nome dà fastidio è forse perché c'è ancora qualcosa da dire. Va bene se dà fastidio, se poi ti spinge a capire un po' meglio le cose.