“Parliamo di tutti i nostri problemi... Solo se ti va di ospitare uno sconosciuto non solo un serial killer che sia chiaro”. Sono queste le parole con cui Mark Samson invita, nelle ore successive all’omicidio di Ilaria Sula, una ragazza a chattare con lui. “Seria killer”, quelle due parole in particolare, accostate al cinismo con cui ha agito nei giorni in cui si credeva che Ilaria fosse scomparsa, inquietano. Ma ci sono basi per pensare a Mark Samson come a un potenziale assassino seriale di ragazze? Lo abbiamo chiesto a Massimo Lugli, uno dei più importanti cronisti di nera in Italia.

Il cadavere nel baule per giorni, l’adescare altre ragazze mentre ha il cadavere in auto, pubblicare storie come se niente fosse. Altre ragazze hanno rischiato? Ma uno che si comporta come Mark Samson è un potenziale serial killer?
Non direi proprio, assassino spietato sì ma serial killer… dai. Un serial killer difficilmente colpisce chi gli è vicino, in genere le vittime sconosciute. Parlare di Samson come di un assassino seriale mi sembra una analisi un po' temeraria.
Perché viene proposta secondo lei?
Perché di fronte a queste cose cerchiamo una spiegazione cerchiamo una spiegazione che in qualche modo ci rassicuri. Che non sia, cioè, un evento eccezionale, casuale.
Cosa l’ha colpita di questo caso?
L’indifferenza che questo ragazzo dimostra. Subito dopo lui va da un amico, mangia la piadina, per tre giorni è allegro, scherza, finge e simula che la ragazza sia scomparsa, all’amico dice che ormai è l’ex fidanzato. Cioè, si comporta in un modo tale che dimostra una spietatezza totale. Poi c'è la questione di chi l'ha aiutato.
Che idea si è fatto? Chi lo ha aiutato secondo lei?
La madre sicuramente, forse il padre sembra, forse qualcun altro.
A proposito dell’indifferenza dimostrata: la lettera scritta in carcere in cui si scusa con la famiglia Sula è un tentativo, secondo lei, di manipolare l’esito del processo o l’opinione pubblica?
È troppo facile dire che sta provando a manipolare. Magari si sta davvero rendendo conto di quello che ha fatto, magari è stato consigliato dall’avvocato. Comunque questi processi, questa sorta di esame di coscienza, non sono mai immediati ma graduali. Non escludo che questo ragazzo, che è giovane, in un futuro possa rendersi conto e iniziare un percorso di recupero, di riabilitazione. Però noi giornalisti dovremmo essere obiettivi e imparziali, non avventurarci in spiegazioni ipotetiche, non è il nostro mestiere.
E del caso Sara Campanella cosa l’ha colpita invece?
Il fatto che la ragazza non abbia avuto la minima percezione del pericolo che stava correndo. Ecco, quello è l’elemento centrale. Perché questo è un omicidio che si sarebbe sventato con nulla. Con nulla. Bastava che la ragazza non si muovesse quando vedeva che il “malato”, come lo chiamava lei, lo stava seguendo o chiedesse a un amico di accompagnarla. Però questo ci dovrebbe far riflettere su quel che si può fare. Perché noi diciamo sempre “Denunciate”, ma purtroppo anche molte donne che hanno denunciato sono state uccise. Bisogna educare alla massima vigilanza.
Quello di Campanella è un omicidio con qualche aspetto particolare?
È un omicidio di stalking, un femminicidio molto particolare. Certo. All'inizio non sembrava uno stalker così preoccupante. Lo stalker manda anche venti messaggi al giorno, ma comunque va considerato uno stalker.
Questi due casi, Sula e Campanella, sono stati subito accostati, sia per via delle tempistiche che per via della dinamica. Nella sua esperienza di cronista, legare tra loro omicidi diversi è utile a comprendere i singoli casi?
No, mai. Ma noi ormai cataloghiamo tutto. È chiaro che esiste il femminicidio, che è una categoria particolare di omicidio e come tale, secondo me, va punita e sanzionata. Però ogni omicidio ha una storia a sé. Nella mia esperienza, che consta di cinquant’anni, non ho mai visto due casi uguali, sovrapponibili. Poi, certo, ci sono analogie. Tutti i femicidi hanno delle caratteristiche comuni, per esempio una donna che vuole la sua libertà, la sua indipendenza, e viene punita per questo. Ma poi le dinamiche sono molto diverse tra loro. Questo non significa che non bisogna lavorare sul femminicidio in quanto tale e cercare di capirlo e prevenirlo. Però accostare sempre i casi lo trovo molto difficile.

Il femminicidio è il tema centrale. Lei lavora quotidianamente sulla cronaca nera. Crede ci sia un’emergenza?
L’emergenza c’è, però bisogna essere molto razionali secondo me. Intanto l’omicidio di una donna non è automaticamente femminicidio, deve essere un omicidio di una donna in quanto tale, per via del suo genere. C’è un calo di due, tre casi ogni anno che passa, ma il numero è più o meno stabile. Siamo più o meno intorno al centinaio di donne uccise in quanto tali. C’è un’emergenza culturale? Probabilmente sì, però i dati un pochino ci consolano perché siamo agli ultimi posti in Europa e nel mondo come femminicidi e come omicidi in assoluto. In Italia viviamo in un Paese estremamente sicuro e tranquillo. Se prendiamo per esempio i pakistani, obiettivamente hanno una concezione della donna diversa dalla nostra. Questo non vuol dire puntare il dito sull’immigrazione, perché poi vediamo che tanti femminicidi sono italiani. Però la cultura patriarcale va inquadrata e smantellata con cognizione di causa. Non solo con le manette, tra l’altro, ma soprattutto con l’educazione. Ecco, parlarne aiuta. Fare quello che stiamo facendo ora aiuta.
I dati consolano, dice, però in tv sentiamo parlare spessissimo di cronaca nera (e anche di femminicidi quindi). La cronaca nera è un trend?
Fanno scalpore perché sono di meno, gli omicidi, come tutto, fanno notizia dove ce ne sono pochi. A Città del Messico un omicidio è una cosa assolutamente normale, come lo era a Roma negli anni Settanta. Poi bisogna considerare un altro aspetto, molto più generale.
Cosa?
Le tre S con cui si vende un giornale: i soldi, il sesso e il sangue. Per questo magari fa scalpore oggi, ma non credo sia aumentato l’interesse. Io ricordo i grandi casi del passato, c’erano migliaia e migliaia di persone davanti ai tribunali che aspettavano la sentenza e c’erano le edizioni speciali che andavano a ruba con i dettagli di processi o fatti di sangue. Bisogna anche tenere in conto che un tempo i lettori erano i fruitori del giornale, oggi siamo tutti con i social.
Oggi si fa buona cronaca nera.
A parte qualche macchietta televisiva col microfono che chiede cose come “Cosa prova?” o “perdonerebbe l’assassino ?” ci sono giornalisti che lavorano bene anche in tv, come facevamo noi un tempo

Com’è cambiato il modo di raccontare i femminicidi e gli omicidi in generale?
È cambiato tutto. Intanto il termine non esisteva, perché ricordiamo che “femminicidio” entra in auge ufficialmente negli anni Settanta, ma prima degli anni Novanta io non ho mai scritto femminicidio in nessun pezzo. Sembrava una parola strana, anche etimologicamente. Noi parlavamo al massimo di uxoricidio o di omicidio. E poi il giornalismo era proprio diverso. Eravamo spietatissimi. Non esisteva la Carta di Treviso o di Venezia, le carte deontologiche, noi le donne violentate le sbattevamo in prima pagina, i minori pure, fotografavamo tutto. Era un altro tipo di giornalismo, molto aggressivo, che è cambiato come culturalmente è cambiato il nostro Paese. Io andavo sul posto e volevo che mi scoprissero il cadavere. I poliziotti mi scoprivano il cadavere perché io dovevo contare le coltellate, una alla volta. Poi andavo a casa e mi facevo dare una fotografia della vittima.
Adesso c’è più rispetto?
Sì e no. Io vedo le cose da taoista praticamente. Yin-Yang, cioè non nero o bianco, ma bianco e nero contemporaneamente. C’è magari più rispetto, ma non sempre. Come nei casi di Liliana Renisovich o Pierina Paganelli, che ormai sono gossip. Questo modo, rispetto al nostro, è anche più invadente se vuoi.
A proposito di questi due casi. Il fatto che i protagonisti di queste storie siano onnipresenti in tv secondo te è un problema?
Sì, è una deriva degli ultimi anni. Tu accendi la televisione la mattina e in tutti i programmi, a distanza di dieci minuti l’uno dall’altro, vedi sempre le stesse persone, spesso gli avvocati. Ma questo fa parte di un più generale tentativo di sovraesporsi grazie a casi più succulenti sul piano del gossip oppure casi risolti, perché riaprirli fa sempre molto effetto film.
Come nel caso di Erba?
È stato ridicolo. Ma tanti hanno bisogno di visibilità, criminologi, criminalisti, avvocati, strani personaggi, detective, tutti quanti in televisione. Sempre.
Lo stesso discorso vale per il caso Garlasco?
Lo dico chiaramente. È una buffonata. Una buffonata cattiva, perché penso che quello che sta succedendo ad Andrea Sempio potrebbe succedere a me un domani o a chiunque altro. La giustizia non è questo. Non è prendere uno che già è stato passato al setaccio e scagionato due volte. Anche ci fossero dei reperti di dna, insieme a quello di altri, cosa dovremmo concludere a distanza di così tanti anni? E poi, a chi serve? Non certo ai genitori, perché loro la giustizia l’hanno avuta. Anche il fratello di Chiara Poggi sostiene l’amico. Questo amore per i cold case non serve sicuramente per far luce sulla verità, tranne rarissimi casi ma eclatanti, non basati su supposizioni o reperti che già si conoscevano ma non erano stati analizzati. Ma sappiamo, soprattutto in passato, come funzionavano le scene del delitto? I giornalisti inquinavano la scena, i poliziotti non portavano i guanti, il medico legale toccava i cadaveri a mani nude. Cosa vuoi trovare, scusa?
