Paolo Rumiz, come si dice in questi casi, non ha bisogno di presentazioni. “Giornalista, scrittore e viaggiatore” è la triade definitoria, aridamente compilativa, leggibile su Wikipedia, ma il suo lavoro e i suoi libri ne fanno, a nostro umile parere, qualcosa di più: un cercatore di sapienza. Non quella “soltanto” spirituale, che di suo sarebbe già merce rarissima, ma più largamente umana. Osservabile nei fatti di ogni giorno. Specialmente i fatti che tendiamo a non vedere, a rimuovere, a negare. Come l’epocale trasferimento di uomini e donne dal Sud al Nord del mondo. Come l’ultima, ma purtroppo non ultima, strage del Mediterraneo, con 41 morti, fra cui 3 bambini, e appena 4 sopravvissuti al largo di Lampedusa. Come gli episodi, catalogati nella “cronaca nera”, di stranieri fatti a pezzi come neanche animali, come oggetti da rompere e buttare via se non servono più, o se minacciano il nostro modo, da contabili e divoratori, di vivere e di intendere la vita. Nell’intervista che segue, e che ci ha concesso in una pausa di scrittura del suo prossimo libro, troverete un Rumiz che analizza la coltre d’oblio calata sui barconi che, a luglio, hanno toccato il record dal 2016: 90 mila arrivi da gennaio, erano 41 mila nel primo semestre 2022. Nonostante a Palazzo Chigi sia insediata una certa Giorgia Meloni, il cui partito si è sempre sprecato in attacchi virulenti contro tutti i governi precedenti, rei di lassismo, incapacità se non connivenza con gli “invasori” stranieri. Perfino Francesco Borgonovo, penna fumantina di destra, ha dovuto ammettere che l’elettore-tipo di Meloni, Salvini e del fu Berlusconi “si aspettava qualcosa di diverso”. E invece. Inoltre, troverete anche un Rumiz, uomo di sinistra, che dà una salutare strigliata alla sinistra, nient’affatto diversa dalla destra nel farsi complice sull’economia padrona, e colpevolmente ignorante sulla necessità, attenzione, del mito. Già: il mito, l’origine irrazionale, e proprio per questo vitale, del nostro essere al mondo, la fonte da cui trarre la risposta alla fatidica domanda: che cosa ci stiamo a fare, noi (italiani, europei, umani), qui? Una risposta che si trova, forse, nella volontà di “combattere”. Una volontà rianimatasi e accesasi come una folgore quella volta che incontrò niente di meno che il Papa.
Paolo Rumiz, perché non si parla più di emergenza sbarchi, perché questo silenzio spettrale sull’immigrazione? Perché ci si dà alla distrazione di massa con la tassa sugli extra-utili delle banche?
Io credo che la maggioranza dell’opinione pubblica sia attaccata a una realtà fittizia. Il potere ipnotico del web, che ci trascina in un mondo parallelo che non ha niente a che fare con la realtà, è fortissimo. Non è solo su questo, è su tutto che giriamo la testa dall’altra parte. Come sul cambiamento climatico, per esempio. A meno che non ci tocchi personalmente. Come è accaduto in Veneto, dove improvvisamente il governatore della Lega Luca Zaia afferma che non è giusto lasciare i giovani soli nella loro protesta sul clima. Ora, il silenzio mediatico sul tema dell’immigrazione nasce da più ragioni. La prima è che a un’economia basata sullo sfruttamento, sullo scarto, su uno schiavismo appena dissimulato, conviene che avvengano delle disgrazie alle porte, che creino una selezione negativa tale da far sì che chi arriva sia talmente contento di esser vivo, da accontentarsi di paghe da fame. Coloro che attingono agli immigrati hanno bisogno di manodopera straniera spaventata per impedire che si sindacalizzi e pretenda di avere di più.
Cioè gli imprenditori a cui fa comodo avere un “esercito industriale di riserva” a basso costo.
Sì sì. La paura e il continuo stato di terrore in cui vive questa gente, anche una volta arrivata, è indispensabile per tenere basso il costo della manodopera. E gli stessi che si servono degli stranieri, magari marciano contro gli stranieri e parlano di sostituzione etnica. L’altro motivo è invece contingente, e altrettanto grave. La Presidente dell’Europa, l’algida Presidente dell’Europa, Ursula (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione Europea, ndr) – ahi Ursula, cosa mi fai? – si limita, di fronte alla mostruosa strage al largo dell’isola di Pilo in Grecia, a un penoso tweet che non dice niente, e questo pochi giorni aver abbrunato le bandiere stellate a Bruxelles in morte di Silvio Berlusconi. Le due cose si toccano, e indicano una premura della von der Leyen nel tenersi buoni, a scopo di elezioni a sua riconferma, i Paesi xenofobi dell’Europa. Quindi, uno scopo elettorale, per lei, e uno scopo economico per tutto il sottobosco dell’economia italiana, quello che non paga le tasse, e al fondo un’origine, come dicevo, che nasce dallo stato di soggezione in cui ci portano i media, che produce uno stato di lontananza dalla realtà e perciò di indifferenza.
Con differenze rispetto al passato?
Sì, con una differenza rispetto a venti o trent’anni fa. Ricordo che, trent’anni fa, quando la gente moriva nella ex Jugoslavia, ci fu una corrente di solidarietà molto forte, con privati, anche singoli, che andavano lì portando camion di aiuti, e con manifestazioni, eccetera, ma c’era anche un istinto di rimozione. Come se pensassimo di essere più lontani dai luoghi di quella realtà di quanto non fossimo realmente. La Bosnia è a 200 km da Trieste. C’erano due spinte contrapposte: chi si rendeva conto, si impegnava; chi non si rendeva conto, diceva “lasciate che si ammazzino, chi se ne frega, è una guerra tribale”. In quegli anni, all’interno delle stesse famiglie si scatenavano risse. Nella zona a più alta densità di volontariato, il Lombardo-Veneto, c’erano famiglie che si spaccavano. Adesso non succede più. C’è un’inerzia totale. E alla rimozione, cioè quella cosa che faceva far finta di non sapere che la Bosnia era così vicina a noi, si è sostituita la negazione. Noi ora neghiamo, siamo in uno stato di negazione assoluto per ciò che accade. Me lo dicono gli psicologi: lo stato di gravità di ciò che ci succede intorno, cioè la pressione migratoria e il cambiamento del clima, o anche il degenerare dell’economia in senso predatorio e di saccheggio, è tale che noi preferiamo non affrontare questi temi, facendo spallucce e passando oltre.
L’altro giorno un sociologo, Filippo Barbera, sottolineava che in Italia la gente è rassegnata, si indigna ma non reagisce, non scende più in piazza. Cos’è successo nella psiche collettiva, secondo te?
Credo che non sia solo una malattia italiana, ma europea. Anche se, bisogna dire, la stampa francese e tedesca, il cuore d’Europa, è molto più attenta, anche per mettere in luce le deficienze dell’Italia, per una supponenza nei nostri confronti. Non c’è dubbio che da noi questo tema sparisca subito dopo l’ultimo grande evento. Ma poi c’è un fatto, in genere. La nostra abitudine al disumano è aumentata.
Ovvero?
Ti ricordi quel libro che scrisse quel francese, “Indignatevi!”?
Sì, di Stéphane Hessel, e Pietro Ingrao ne scrisse uno di rimando, dal titolo “Indignarsi non basta”.
Grazie, ma se prima non ti indigni, non fai niente. Ma adesso anche l’indignazione è scomparsa. Prima ci si indignava e magari non si faceva, adesso non ci si indigna neanche più.
In parecchi si sono indignati per Piero Fassino che sostiene che il suo compenso da parlamentare non sarebbe “d’oro”.
Ma sì, perché riguarda gli altri. È sempre facile avere dei mostri da additare, perché questo in qualche modo ci assolve. È un modo per dire che il problema sta solo in pochi privilegiati, mentre siamo di fronte a problemi che riguardano la coscienza di tutti noi. E la nostra coscienza si è abituata al disumano.
A questo proposito, ti segnalo l’affermazione del ministro degli Interni, Matteo Piantedosi, che ha definito l’accordo sui migranti con la Tunisia (e i morti dell’altro giorni venivano da lì) “l’equivalente di un blocco navale”. Un’idea, questa, che anche se non tradotto realmente in fatti, è ormai in pratica sdoganata. Che idea te ne sei fatto? E non è che, più banalmente, il silenzio mediatico sia dovuto al fatto che al governo, che controlla la Rai, c’è Fratelli d’Italia?
Il problema non è tanto se al governo ci sia una forza politica di radice fascista. Se adesso arrivasse un altro Mussolini, così come non fummo capaci di resistere allora, adesso non solo non saremmo capaci di reagire, ma non ce ne renderemmo neppure conto. La Meloni non ha neanche bisogno di essere fascista, perché ha di fronte una massa sociale liquida e indifferente capace di accettare qualsiasi cosa, a meno che non si tocchi il portafoglio. E poi c’è ancora un altro motivo del silenzio, che rafforza il governo Meloni, ed è il suo inedito filo-americanismo, fra l’altro l’unico elemento in controtendenza rispetto alle italianissime tradizioni della destra.
Arcitaliane, diciamo.
Sì, esatto, arcitaliane.
E qual è, questo motivo ulteriore?
È che l’America, dopo essersi garantita un totale, acritico e quasi cieco appoggio alla posizione della Nato sull’Ucraina da parte del governo italiano, non gliene fotte un cazzo che il governo italiano sia democratico o meno. La Meloni, che è corsa dagli americani a farsi benedire prima ancora di essere eletta, voleva avere la certezza di non finire silurata mediaticamente, come accadde a Berlusconi, per il quale il processo mediatico per indegnità si scatenò, guarda un po’, appena si appalesò la sua amicizia con Vladimir Putin. Per evitare il rischio, Meloni e i suoi si sono affrettati a dire agli americani “noi vi obbediamo perinde ac cadaver”.
Fino alla morte.
A questo punto, gli Americani non discutono più la politica della Meloni. E noi ce lo prendiamo in culo.
Questo però vale per ogni e qualsiasi governo in Italia, che deve, è costretto a ottenere il crisma ufficiale degli Stati Uniti per poter anche solo governare, o no?
Sì. Se pensi alla ex Yugoslavia, che fu bombardata dalla Nato con l’entusiastico appoggio del governo di sinistra, il governo di Massimo D’Alema. Io credo che, comunque, sia destra o sia sinistra, la differenza sia poca. Perché entrambe rispondono a logiche economiche governate dagli Stati Uniti. La politica, di destra o di sinistra, risponde all’economia delle grandi multinazionali. L’unica potenza libera da questo punto di vista è la Cina, che è un Paese in cui a comandare è la politica, e comanda su tutto, anche sull’economia. Mentre da noi è il contrario. Da noi, destra e sinistra sono epifenomeni di un approccio brutale dell’economia.
Un tuo lettore di sinistra sobbalzerà per questa tesi.
Che sobbalzi pure. Certamente io sono di sinistra, ma non posso non notare la mancanza di coerenza, a parte pochissimi esempi in senso contrario. La sinistra è semplicemente più ipocrita rispetto alla destra. Un po’ come l’Europa, che manifesta grandi princìpi universali, e contemporaneamente traccia linee di filo spinato per difendersi dalla “sostituzione etnica”. Sostituzione etnica che, non si sa per quale motivo, non funziona quando ad arrivare in Italia sono i ricchi. Io vivo a Trieste, una città in cui si grida al pericolo immigrazione e alla sostituzione etnica da anni perché siamo governati da una bieco e ignorante giunta di destra, nonostante un passaggio sotto le 10 mila persone all’anno. Si manipola la situazione, bloccando il ricollocamento dei migranti, che invece dovrebbe essere fatto, così le giunte regionale e cittadini fanno sì che questa gente stazioni e ciondoli per la città per dare la sensazione di un’invasione. Allo stesso tempo, la città ha superato i quattro o cinquecentomila arrivi annuali di crocieristi e di turisti, per i quali invece non vale il discorso della sostituzione. Un’invasione di forestieri su cui si favoleggia portino chissà quali ricchezze, mentre passano, spendono pochissimo e se ne vanno. Il silenzio su questo nasconde vantaggi non per la città, ma per qualcuno. Per pochi. Con i giornali locali molto reticenti sui danni, soprattutto ambientali, sui nostri mari e sulla qualità dell’aria di questo traffico. È una violenza identitaria, e una destra che dice “prima gli italiani”, come fa ad aprire le porte a stranieri che letteralmente stuprano le città? E sono questi i veri barbari, che non sanno niente del luogo e se ne vanno senza sapere niente del luogo.
Evidentemente, il razzismo ha cambiato forma: da biologico, a economico. Il razzismo di oggi è verso i poveri, a prescindere dal colore della pelle. Che tipo di razzismo c’è oggi?
Ho l’impressione che ci sia un aumento di aggressività verso i poveri e gli indifesi, con una vigliaccheria di fondo che fa sì che per divertimento si vada a bastonare o ammazzare un poveraccio che dorme su una panchina. C’è un odio del povero, perché il povero rappresenta ciò che noi temiamo di diventare. Così come l’immigrato povero ci ricorda ciò che noi siamo stati, e che non vogliamo più tornare a essere, mentre lo siamo, perché oggi il vero problema non è l’immigrazione, ma l’emigrazione. Un sacco di personale qualificato e non, scappa all’estero inseguendo un sogno che tre volte su quattro resterà tale. In ogni caso, il razzismo di convenienza, economico, e il razzismo di pancia, entrambi con un enorme cinismo e disumanità di fondo, diventano una cosa sola di fronte a episodi come quello nel Napoletano, dove un immigrato egiziano è stato decapitato, smembrato e buttato in mare da due che lo avevano assunto in nero e a condizioni assurde, solo perché se n’era andato e avevo preso a lavorare per la concorrenza. Questo secondo me è il monumento di quel che sta accadendo: creare con un esempio un clima di terrore per abbassare il costo del lavoro.
La speranza è una trappola, diceva Mario Monicelli. Non ti chiedo in cosa sperare, in questo panorama così desolante, ma su cosa far leva per combattere.
La profuga di guerra siriana eroina del mio ultimo, complesso e difficile libro scritto, in un momento di “follia”, in versi, “Canto per l’Europa”, riesce a scappare da coloro che la seviziano in un bordello libanese quando smette di sperare e comincia a far conto solo su sé stessa. Da quel momento riesce a fuggire in un Occidente, che non è quello che si aspetta. Lei ha rinunciato alla speranza, e vince per questo. Però io ritengo che la speranza sia un dovere, non un diritto, che devono esercitare soprattutto i portatori del messaggio culturale, perché se nemmeno dall’alto viene un messaggio di speranza, allora è finita. Io ho trovato questo messaggio, di speranza combinata con l’indignazione, nel Papa. Io l’ho incontrato due volte. Quando, congedandomi da lui dopo avergli detto che anche mio nonno era un migrante argentino e che ero un triestino mangiapreti (battuta a cui ha risposto con un’altra: “buon appetito!”), gli ho detto che la sua è una battaglia durissima, “ogni tanto tiri il fiato”. E lui mi ha guardato quasi stupito e mi ha detto: “Amico mio, io non posso mollare, la vita è fatta per essere bruciata”. Ha usato questa parola, “bruciata”, che mi è passata come una scossa elettrica, anche perché quell’uomo ha una corporeità fantastica, è un Papa che è fatto per essere toccato, che quando ti dà la mano, ti senti in qualche modo in suo possesso. Quel “bruciata” mi ha messo addosso una carica di energia e una voglia di combattere, nonostante tutto, nonostante la voglia, anche per ragioni di età, di mollare gli ormeggi. E qual è l’arma fondamentale? Credo sia la narrazione. In questo mondo in cui la comunicazione è ridotta a monosillabi e a tweet, abbiamo rinunciato a raccontare quel tipo di racconto che parte sempre con un “c’era una volta”, da un grande inizio, quello che affascina i bambini. L’Europa ha smesso di chiedersi chi è e da dove viene, ha rinunciato a costruire una mitologia di sé stessa, un mito di sé. Nessuna collettività umana può resistere senza un mito delle origini. Quasi un mese fa, invitato dall’Anpi di Bolzano, ho parlato del mito come ultima linea di resistenza al disumano.
Il mito rimanda al senso del sacro e dello spirituale, non necessariamente di qualche confessione, come quella cristiana. Tema difficile, anche qua, da far capire a sinistra.
Ma sono cose che capiscono i miei nipotini!
Certo, i bambini sì. Sono però certi grandi, a non capirlo.
Esatto, proprio così. Siamo talmente immersi nel flusso del qui e ora, che abbiamo rinunciato a chiederci chi siamo. L’Europa oggi si è ritrovata improvvisamente unita per combattere l’espansionismo putiniano. Però è troppo facile usare il nemico come scorciatoia identitaria. Non mi basta sapere chi non sono, io voglio sapere chi sono. E quando i cari Draghi, Macron e Scholtz sono andati con il treno di notte a Kiev per portare solidarietà a Zelenskij, erano uniti solo perché c’era il baubau alle porte. Ma sull’immigrazione, eccoli subito tornare ognun per sé, e Dio per tutti. Anche in questo c’è un’immensa ipocrisia. A noi manca un patriottismo europeo. Io sogno di vedere la squadra di calcio europea giocare contro quella dell’America.
Per l’intanto, mi sembra di capire, non ci resta che Bergoglio.
Ma affidiamoci anche ai grandi narratori del passato. E ricordiamoci anche le nostre radici greche. L’ospite forestiero per i Greci era sacro, perché in lui poteva nascondersi un dio. Invece oggi la Grecia è ancora martoriata dalle banche europee, e comprata, anche dai cinesi. E nonostante questo, lo straniero là viene ospitato immediatamente. Altro che debiti della Grecia: siamo noi, che siamo in debito. La culla della civiltà europea devastata dalle banche europee: a livello simbolico, è questo, lo scandalo.