Proprio adesso che da una parte la globalizzazione ci permette di accedere a informazioni e news riguardanti posti fisicamente “irraggiungibili”, per i motivi più disparati, dall’altra parte, si presenta però (purtroppo) anche una difficoltà ad accedere a fonti autorevoli, soprattutto su alcune questioni delicate, come per esempio le notizie che arrivano dalla Russia, tanto che a volte si ha quasi la sensazione di star vivendo una nuova fase di “guerra fredda”, in cui il blocco che sta oltre la Cortina di Ferro, non riesce a toccarsi con quello occidentale. Tuttavia, ci sono, e ci sono stati – per fortuna – tanti volti, nomi e soprattutto persone, che si sono impegnati per fare la differenza, e tra di loro, non si può non menzionare Anna Politkovskaja, i cui scritti e pubblicazioni sono disponibili, grazie alle traduzioni di Adelphi, anche in Italia. Anna Politkovskaja è stata una giornalista, poi anche scrittrice e soprattutto attivista per i diritti umani, che si è sempre battuta per la verità. Si è battuta per essere una fonte autorevole, per raggiungere più persone possibili con i suoi racconti e le sue esperienze, anche e soprattutto su questioni molto delicate e di cui nessuno solitamente parla. Anna è infatti famosa perché per anni, dal 1999 fino al suo brutale assassinio nel 2006, si è occupata in prima linea delle guerre di Cecenia. I suoi scritti hanno messo in luce la parte più oscura e atroce di quei conflitti, quella che nessun altro prima di lei osava mostrare, ma proprio per questo, nel tempo si è fatta molto nemici, tanto da ricevere minacce e intimidazioni, fino a quando, dopo un tentativo di avvelenamento nel 2004, è stata assassinata nell’ascensore del suo palazzo, mentre rientrava a casa il 7 ottobre 2006 nel giorno del compleanno di Vladimir Putin. Sembra in effetti una storia già sentita. Vi ricorda qualcuno? Ma facciamo un passo indietro. Chiunque voglia occuparsi di Russia e cultura russa, soprattutto oggi, sa quanto sia importante documentarsi su più fonti possibili, su fonti autorevoli, trasparenti e attendibili, per cercare di comprendere la complessità della realtà odierna e soprattutto i (numerosi) punti oscuri. Molti di questi punti oscuri presenti in Russia, sono stati rivelati proprio da persone come Anna Politkovskaja, a cui per questo, bisogna essere grati, anche perché proprio in nome di quelle verità, ha pagato con la sua vita. Anna lavorava alla redazione della Novaja Gazeta - uno dei quotidiani russi più autorevoli, trasparenti, ma anche minacciati - e lavorava molto duramente, fino alla fine, e anche prima di essere brutalmente assassinata, era in procinto di pubblicare un articolo di denuncia sulle torture commesse durante il conflitto ceceno. Quando Anna venne assassinata, nonostante lo sgomento e l’orrore, il direttore della Novaja Gazeta, Dmitrij Muratov - Premio Nobel per la pace - rinvenne l’articolo e decise di pubblicarlo comunque, nonostante tutto, anche come forma di protesta. Lo fece due giorni dopo l’uccisione di Anna, il 9 ottobre 2006, perché quello era l’unico modo di dimostrare che il suo lavoro, le ricerche e le parole, non erano state scritte, spese e diffuse invano.
Il racconto della Russia di Putin fatto da Anna, non dovrebbe suonare strano, soprattutto oggi. Eppure, ci sono ancora molti intellettuali resistenti di fronte a ogni evidenza, persino al racconto di una martire. Fortunatamente, in Italia abbiamo modo di leggere, dopo i lavori di Anna, la firma autorevole della figlia di Anna Vera Politkovskaja, che su Repubblica ha firmato un pezzo sulla morte di Navalny e che, ieri sera,ospite a Piazzapulita, nel programma di Corrado Formigli, ha parlato di quello che lei stessa definisce “l’ennesimo omicidio di matrice politica”. Un crimine che, come insegna la storia della madre, può colpire la comunità internazionale, ma che lascia sempre i soliti pochi (in pericolo) a indagare. Lo ricorda anche Vera: “Dopo la morte di mia madre, Anna Politkovskaja, dopo la morte di Boris Nemtsov, lo scenario fu analogo. Anche adesso posso affermare con certezza che le dichiarazioni di queste ore non significano e soprattutto non garantiscono nulla. Per i politici europei e americani, l’omicidio di Navalny è solo l’ennesimo pretesto per prendere la parola e ancora una volta ‘dare uno schiaffo’ alla Russia di Putin. Ma la cosa non sorprende più nessuno. La realtà dei fatti è che il dialogo e le dichiarazioni non potranno in alcun modo dare un contributo ad acclarare cosa sia realmente accaduto. È tutto nelle mani della famiglia e dei compagni di lotta di Navalny, la maggioranza dei quali, per loro fortuna, non si trova in Russia. Solo loro saranno eventualmente in grado di stabilire almeno la verità”.
La verità, ancora una volta, è che spesso i sistemi autoritari si alimentano anche della paura stessa di chi è al potere, poiché chiunque abbia governato abbastanza, sa quanto il trono possa inclinarsi e far cadere le regali terga a terra, per lasciare spazio a una nuova ondata. Navalny avrebbe potuto rappresentare questa nuova ondata, ma forse lo stesso presidente russo lo sapeva. Nel racconto di Vera Politkovskaja tutto diventa più chiaro: “L’oppositore russo è stato in qualche modo il prigioniero personale di Vladimir Putin che lo temeva talmente da non osare pronunciare il suo nome ad alta voce, offrendo così il fianco ai giornalisti che glielo hanno fatto notare a più riprese. Navalny, dal canto suo, trovandosi già dietro le sbarre, non ha mai avuto paura a definire il Capo di Stato russo un omicida, un farabutto e un ladro”. Il legame tra Anna Politkovskaja e Alexei Navalny, negli ultimi giorni è stato rafforzato anche da un ultimo spiacevole evento: l’identificazione di dodici persone a Milano che lunedì scorso avevano deciso di posare dei fiori in onore del dissidente russo sotto la targa che la città di Milano ha deciso di dedicare proprio alla giornalista assassinata. Quasi come se ci fosse una sinistra somiglianza qui, nel nostro mondo occidentale e apparentemente libero, con quello che succede a migliaia di chilometri di distanza, nelle città russe, vicino alle solide mura del Cremlino, dove le persone che scendono a manifestare e ricordare Navalny, o che anche solo depongono un fiore, vengono arrestate, e dove non esiste una reale forma di opposizione. Il racconto di Anna Politkovskaja, allora, vent'anni fa, era da prendere sul serio, perché i suoi scritti ci avevano già anticipato quello che stava per accadere e che poi è inesorabilmente accaduto. Quest’ennesima morte, oggi, distrugge di nuovo una famiglia e costringe una donna e una moglie, Yulia Navalnaya a proseguire da sola la strada del suo defunto marito. Una strada che, nonostante le contraddizioni, sta diventando un simbolo per la Russia. Anna aveva previsto tutto, e come lei sua figlia Vera, ha deciso di proseguire quello stesso lavoro come monito, con un unico obiettivo: quello di non far calare l’attenzione su quanto accade dentro la Russia, non soltanto oltre i suoi confini di ferro: "La lezione più importante che ho imparato da mia madre è che bisogna chiamare tutto col proprio nome. Anche se si è una minoranza, questo non significa non aver ragione..." (Vera Politkovskaja)