Tutti a capire e coccolare gli agricoltori che protestano in mezza Europa: dai capi di governo, Giorgia Meloni in testa, passando per l’Ue con Ursula von der Leyen, per finire con Amadeus, presentator cortese che li farebbe generosamente salire sul palco del Festival di Sanremo. Per scovare qualcuno che li critichi, o per meglio dire che li dileggi, bisogna contentarsi di Massimo Giannini sulla Repubblica (“i nuovi kulaki”) o delle sussidiate penne del Foglio (“agrovandali”), giù giù fino allo youtuber GioPizzi (“nazisti sui trattori?”). Tutti quanti, però, accomunati da un denominatore: non la raccontano giusta, sui motivi della rivolta. O se lo fanno, lo spirito, più o meno, è questo: così va il mondo, e basta qualche aggiustatina fiscale, o rispettare qualche regola disattesa, o fare facile retorica sul consumo consapevole, e oplà, il caso è risolto, si torni nei ranghi. Zitti, buoni, e non disturbare il manovratore.
La causa principale della sollevazione viene individuata nelle politiche cosiddette “green” dell’Europa, la famosa o famigerata transizione ecologica. Sicuramente, misure come l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei terreni e convertirne il 25% a biologico entro il 2030 in cambio dei sussidi comunitari, un effetto lo producono, sui bilanci delle aziende agricole. E difatti la Commissione Europea, secondo l’Ansa, sarebbe ora ripensando gli obbiettivi di riduzione di gas serra contro il riscaldamento climatico, così da allentare un po’ la presa. Il tema degli aiuti pubblici riguarda anche i singoli Stati: l’Italia meloniana, nella finanziaria di dicembre, ha reintrodotto l’Irpef per il settore, cancellando anche le esenzioni per gli imprenditori under 40 e imponendo l’assicurazione obbligatoria contro gli eventi atmosferici. E oggi ecco i partiti della maggioranza di centrodestra correre a macinare emendamenti per prorogare l’esenzione Irpef. Ma questa è solo una parte, quella più appariscente e più strumentalizzabile dalla politica, che spiega il problema. Rientra negli schemi di gioco per cui ci si divide fra chi è a favore o contro la stretta ecologista sull’inquinamento, con contorno di carne sintetica, farina di grillo e ogm. Temi reali, ma ad alto tasso di propaganda.
I motivi profondi - strutturali, si diceva una volta - sono in realtà due. Sul primo, bisogna dire, viene concesso pure il diritto di menzione, e diremo poi perché. Da più parti, infatti, si scrive con dovizia di dettagli che il povero piccolo produttore è schiacciato da un meccanismo per cui gli resta, se va bene, il 10% del prezzo finale del prodotto, mentre la grande distribuzione si intasca il 50%. Per capirci, secondo la Fao, l’organizzazione dell’Onu su alimentazione e agricoltura, già nel 1997 la percentuale di ricavo del contadino si era ridotta al 7%, mentre nel 1910 era del 40%, e la discesa è costante. E non solo per il guadagno delle grande catene. Nei decenni, con il benessere, la diffusione dei supermercati e la finanziarizzazione dell’economia, i passaggi si sono moltiplicati. A monte, abbiamo oggi beni alimentari comprati e venduti nelle Borse merci mondiali (Chicago, Londra, Parigi, Mumbai), in cui i fondi e banche finanziarie internazionali, da BlackRock a Vanguard a Jp Morgan, controllano la proprietà di un po’ tutto, dalle stesse piazze di scambio alle multinazionali produttrici, determinando il prezzo come si fa in regime borsistico, ossia speculando. Come? Trattando le materie prime per alimenti come qualunque altra merce: giocando al ribasso o al rialzo, tramite la dinamica dei futures, scommettendo cioè sulla resa futura (di qui l’invenzione dei “derivati meterologici”, da vent’anni a questa parte estesi a tutti i titoli, e non più solo alle produzioni effettivamente minacciate dalle oscillazioni del meteo).
Nel mezzo, la gdo, la grande distribuzione organizzata, anch’essa una manciata di soggetti (internazionali, come Carrefour, o nazionali, come da noi l’Eurospin, non a caso bersaglio, giusto ieri in Campania, di una delle tante proteste dimostrative di questi giorni), che strozzano la filiera non rispettando gli ipotetici range di prezzo pur previsti dall’Unione Europea, con aste che penalizzano il piccolo produttore di cui sopra. Talché Bruxelles avrebbe anche stabilito, bontà sua, un regolamento contro il comportamento di mercato sleale, ma non risulta lo faccia rispettare. L’esito è noto: mentre l’inflazione è globalmente scesa, il rincaro sugli scaffali è proseguito, e al nostro contadino rimangono le briciole. Le associazioni di categoria come la Coldiretti ha promosso negli anni l’incontro fra produttore e consumatore, nei mercatini che abbiamo preso l’abitudine di veder comparire nelle città. Consorzi e gruppi di acquisto cercano di inculcare nel compratore finale il “consumo consapevole”. Ma sono palliativi: finché la politica, ovvero gli Stati, seguiteranno ad abdicare al loro ruolo, che sarebbe quello di intervenire sia sul lato dell’offerta, tagliando gli artigli a gdo e speculazione finanziaria (vasto programma: implicherebbe protezionismo e tasse mirate, salvando poi i lavoratori dei mega-marchi), sia sul lato della domanda (aumentando salari e stipendi, ma ciò è vietato, verboten, dalla regola ferrea dell’Ue: l’anti-inflazione, ma solo per la spesa pubblica, mica per i profittatori privati), si continuerà così, imperterriti. Anche a discorrerne amabilmente con viva e vibrante indignazione, lasciando però tutto com’è.
Per l’altro corno della questione, invece, non è ammesso neppure si possa discuterne. Ci riferiamo alla motivazione più contingente, ma anche questa legata a limiti, anzi, a veri e propri condizionamenti che ci legano le mani alla schiena. Leggi: fedeltà atlantica fino alla morte. Facciamo un passo indietro. Nell’ultima fase storica, le prime azioni dimostrative degli agricoltori nel continente europeo risalgono all’aprile del 2023. A scendere in strada furono polacchi, ungheresi, slovacchi e rumeni. Come mai solo nell’Est? Perché furono i primi a subire le conseguenze del rimedio escogitato dal governo tedesco (la “coalizione semaforo” socialdemocratici, verdi e liberali) per ovviare al pericolo che il granaio Ucraina, alle prese con l’invasione russa, non assicurasse più i rifornimenti. Il commercio con Kiev, infatti, poco tempo dopo lo scoppio del conflitto era stato garantito grazie a una mediazione della Turchia di Erdogan con Putin, che sbloccò la regolare partenza delle navi dal Mar Nero. Ma affidarsi al brutto e cattivo Erdogan (membro Nato, ricordiamolo sempre) e all’ancor più brutto e cattivo Putin era troppo rischioso, e soprattutto non avrebbe dato la certezza a Zelensky di poter vendere in via diretta agli europei, che fra l’altro avevano pure tolto agli ucraini i dazi. I tedeschi, quindi, con la loro proverbiale efficienza costruiscono una linea ferroviaria che taglia fuori la tradizionale rotta marittima, danneggiando per soprammercato gli africani che figuravano anch’essi fra i terminali (e a Putin non parve vero di regalare, sì, proprio regalare il suo, di grano, all’Africa, in cambio di facile e prezioso tornaconto politico).
A quel punto, cioè nella primavera scorsa, con tutto quel grano ucraino a inondare i mercati europei, e in primis quelli est europei, il prezzo crolla, e i contadini si imbufaliscono. Tanto che la Polonia, uno dei Paesi più agguerriti nel sostenere la crociata anti-russa, arriva a minacciare il taglio alle forniture militari a Kiev. L’Ue corre ai ripari e ammansisce l’insurrezione rurale bloccando il grano proveniente dall’Ucraina solo negli Stati dell’Est, che difatti attualmente non partecipano alla jacquerie generalizzata, mettendo sul piatto pure un 100 milioni per l’emergenza. Ma a novembre 2023 succede un fatto che porterà al casino di oggi, e questa volta in Germania: la Consulta dichiara incostituzionale l’uso dei fondi, originariamente per il Covid e pertanto scomputati dal deficit pubblico, girati nel 2021 da Berlino sul fronte ambientale. Risultato: buco di 60 miliardi. E il cancelliere Olaf Scholtz, per ramazzare soldi qua e là, che ti fa? Ti elimina i sussidi al gasolio e le agevolazioni per macchine per i campi, dando un colpo mortale al comparto agricolo. Se questa botta la colleghiamo alla micidiale perdita di peso politico ed economico della Germania a causa del sabotaggio, nel settembre 2022, del gasdotto Nord Stream, strategico canale fra Russia e Europa che sarebbe stato fatto saltare dall’Ucraina (almeno stando a Washington Post e Der Spiegel), si può concludere così: se i nostri lavoratori della terra utilizzeranno la vetrina dell’Ariston, si spera lo facciano puntando il dito contro i responsabili, tutti, primi e ultimi, del proprio collasso. Vale a dire chi permette il loro dissanguamento come sistema, e chi ha avallato e insiste ad avallare, lancia in resta, mandando denaro e armi, una guerra per procura in Ucraina con cui ci spariamo sui piedi per non contrariare loro, sempre loro: gli Stati Uniti. E non sono soggetti diversi: sono gli stessi. Ecco perché del fattore Ucraina non si può parlare, se non in avamposti di contro-informazione (come il canale youtube di Paola Ceccantoni detta Pubble, che l’ha ben trattato in un recente video): perché, eccezioni a parte, a sostenere tale bellicismo particolarmente coglione sono tutti, dalla Meloni alla von der Leyen. Giù giù fino a GioPizzi.