La guerra tra Russia e Ucraina è entrata nel suo terzo anno e sembra ancora lontana la fine. Sul campo la Russia avanza lentamente ma con costanza, mentre l’Ucraina resiste, tra difficoltà e richieste di aiuto. Intanto si parla di negoziati, ma chi è davvero disponibile a trattare? Le sanzioni stanno funzionando? L’Europa e l’Italia che ruolo possono giocare? Per cercare di capirci qualcosa, ne abbiamo parlato con Fulvio Scaglione, giornalista esperto di affari internazionali, ex vicedirettore di Famiglia Cristiana, già corrispondente da Mosca e oggi direttore di InsideOver. Lui conosce da vicino la Russia e l’area post-sovietica, ha seguito sul campo conflitti in Afghanistan, Iraq e Medio Oriente, e coordina “Lettera da Mosca”, un progetto di informazione indipendente sulla realtà russa e i suoi dintorni. Con lui abbiamo discusso di tutto: del vero equilibrio (o squilibrio) nei tentativi di negoziato, del ruolo degli Stati Uniti e di Donald Trump, della diplomazia vaticana, della posizione dell’Italia e dei costi – politici, economici e strategici – che questa guerra sta portando con sé.

Giorgia Meloni ha parlato della disponibilità ucraina al cessate il fuoco e dell’assenza di risposta da parte russa. È davvero così asimmetrica la disponibilità al negoziato tra Kiev e Mosca?
In realtà no. È chiaro che in questo momento ad avere più ritrosie rispetto all’ipotesi di cessate il fuoco è la Russia, perché si trova in vantaggio sul campo e ha un vantaggio psicologico anche nel fatto che, mentre tutti i Paesi occidentali pensavano che le sanzioni sarebbero servite per piegarla, in realtà non è stato così. Le sanzioni hanno certamente creato problemi e danni alla Russia, ma non sono servite a farle smettere questa guerra. Quindi, la Russia ha questo punto di vista ed è per questo che non si affretta a correre verso il negoziato. Anzi, detta delle condizioni piuttosto dure e tutte le cose che sappiamo. Però anche l’Ucraina, dal suo punto di vista, ha diverse ritrosie rispetto al negoziato. Qui direi per due ragioni. Una è che l’Ucraina non vuole trattare nei panni del Paese sconfitto, e infatti continua a dire che vuole indietro i territori e fa delle richieste, anche legittime dal suo punto di vista, ma che sa benissimo non saranno mai accettate dalla Russia come precondizione per sedersi al tavolo delle trattative. E poi c’è un ulteriore elemento, di più difficile valutazione ma comunque sicuramente sul tavolo: il futuro politico di Zelensky e del suo, chiamiamolo così, assetto di potere. Zelensky sa benissimo che nel momento in cui si firma un cessate il fuoco, o addirittura una pace, la vita politica in Ucraina, finora surgelata dalla legge marziale, riprenderebbe a pieno ritmo, così come le contestazioni nei confronti del suo operato e il malcontento, che indubbiamente in Ucraina esiste. Quindi, in realtà, non è, per riprendere le tue parole, così asimmetrica la situazione.
Lei mi ha parlato dell’inefficienza delle sanzioni, eppure il G7 ha ribadito l’intenzione di inasprirle.
Io direi che dopo tre anni e mezzo, diciassette pacchetti di sanzioni europee e non so più quanti americani, è difficile fare più di così. Anche quando si prospettano provvedimenti come quello accennato dal senatore Graham, mettere dazi pesantissimi al gas e al petrolio russo, e fare altrettanto con i Paesi che li comprano, bisogna tener conto che quei Paesi si chiamano Cina, India… Non sono “paeselli”, sono potenze che potrebbero anche reagire. Quindi, non credo molto che ulteriori sanzioni possano fare la differenza. C’è poi da tenere presente un altro elemento: non è affatto detto che gli Stati Uniti di Donald Trump si aggregherebbero a una politica sanzionatoria più aggressiva di quella attuale.

A proposito di Trump: come interpreta la sua posizione, che è comunque un po’ ambigua? Da un lato sembra appoggiare l’Ucraina, dall’altro è riluttante a rafforzare il sostegno nel G7.
Trump ha persino detto, proprio nei giorni scorsi, che era molto meglio il G8 con la Russia del G7 attuale. È chiaro che Trump, e naturalmente anche i suoi, sono molto critici nei confronti degli assetti politici internazionali attuali. Però, mi pare piuttosto evidente che, in questa fase, l’unico che può dare una spinta decisiva al negoziato sia proprio lui: Trump. Perché, in realtà, noi parliamo del negoziato come se ci fosse un negoziato tra Russia e Ucraina, magari con mediazione americana. Ma in realtà esistono due negoziati separati: uno tra la Russia e gli Stati Uniti, e uno tra l’Ucraina e gli Stati Uniti. Sono due tavoli con temi assolutamente diversi. Solo quando questi due negoziati si saranno chiusi, potrà cominciare il vero negoziato tra Russia e Ucraina, che al momento, come abbiamo visto anche a Istanbul, di fatto non c’è. È chiaro che a Putin interessa molto di più quello che può offrirgli Trump: l’alleggerimento delle sanzioni e il reinserimento, almeno parziale, della Russia nei circuiti economici occidentali. Questo per lui conta molto di più che conquistare un altro 3-5% di territorio ucraino. All’Ucraina, a Zelensky, interessa avere la copertura degli Stati Uniti, anche futura. E che Trump sia un alleato quando comincerà il dopoguerra.
La diplomazia vaticana e l’Italia non hanno un peso nel favorire un processo negoziale?
L’Italia no, sicuramente. Ma non ce l’hanno neanche i cosiddetti “volenterosi”, cioè Germania, Polonia, Gran Bretagna e Francia. Hanno un peso relativo, che consiste nell’aiutare l’Ucraina con armi e denari, ma sulla risoluzione diplomatica della questione hanno pochissimo peso. Il Vaticano è un discorso diverso. Mi pare che la postura del nuovo Papa sia sostanzialmente diversa da quella del precedente. Leone XIV, intanto, ha offerto il Vaticano come luogo di mediazione, quindi si è coinvolto direttamente. Papa Francesco, invece, aveva inviato il cardinale Zuppi sia in Ucraina sia in Russia, ma era una figura con opinioni precise sulla questione. Il pontefice aveva dichiarato: “La Nato ha abbaiato ai confini della Russia”. Questo l’ha in qualche modo escluso da un potenziale ruolo di mediatore. Papa Leone XIV, invece, ha una postura diversa: coinvolgimento personale, non attraverso inviati, e un atteggiamento molto più da mediatore. Cautela, silenzio, niente dichiarazioni che possano irritare gli interlocutori.

È sostenibile questo sforzo per l’Italia in un contesto di vincoli europei e rallentamento economico?
Allora, faccio una piccola premessa. Io credo che l’Unione Europea soffra di difetti congeniti che la rendono molto complicata da gestire in condizioni di difficoltà. L’Unione Europea funziona quando tutto va bene: è un moltiplicatore di ricchezza e benessere. Ma quando le cose vanno male, l’Unione stenta. Non avendo una politica estera comune, non riesce a essere un interlocutore efficace nella politica internazionale. Negli ultimi tempi, infatti, l’Unione è stata governata solo con piani di emergenza: prima c’è stato il Green Deal, che poi è finito male, visto che ora anche chi l’aveva approvato lo contesta, poi il Covid, con la campagna vaccinale che, per carità, è andata bene, ma con tutte le opacità legate alla gestione von der Leyen. Poi è arrivata la guerra in Ucraina. E qui, in omaggio alla sua debolezza e alla necessità di restare agganciata al carro degli americani, l’UE ha fatto, secondo me, un errore colossale. Perché se uno ha la guerra in casa, cioè in Europa, la prima cosa che cerca di fare è di farla finire il prima possibile. Non di farla durare il più a lungo possibile. Ora c’è lo spettro della guerra con la Russia, anche se nessuno lo dice esplicitamente. Quando si parla di riarmo, il sottinteso è: “Ci riarmiamo per non fare la fine dell’Ucraina”. Io trovo questa teoria politica molto dubbia. Pensare che la Russia possa attaccare l’Europa e, di conseguenza, la Nato che ormai è sovrapposta all’Ue, mi sembra una follia. Putin sarà quello che volete, ma non è stupido. In più, questo piano per il riarmo, che prevede la mobilitazione di 800 miliardi, in mancanza di una politica estera e militare europea comune, diventa solo un’operazione in cui ognuno fa un po’ quel che vuole. E, secondo me, serve soprattutto a due cose: primo, cercare di ridare fiato all’industria europea, in particolare a quella tedesca, in crisi dopo la chiusura del gasdotto, secondo è l’ennesima emergenza escogitata per tenere in piedi un’Unione Europea nata male, piena di handicap, e per controllare il malumore dei cittadini. Perché il cittadino spaventato è sempre più facile da governare.
E per quanto riguarda invece i rischi sui costi energetici? Siamo meno esposti oggi, rispetto al 2022?
Io credo che siamo passati da una condizione di dipendenza a un’altra. L’Europa non ha risorse energetiche pari ai bisogni del suo apparato industriale, quindi deve comprare energia, petrolio, gas, gas liquefatto, da qualcun altro. Prima lo facevamo con la Russia, che è vicina, ci vendeva puntualmente e a prezzi competitivi. Non abbiamo mai avuto veri problemi, a parte un paio di occasioni per pasticci tra Russia e Ucraina. Questo è stato uno dei segreti del boom economico europeo. Poi, nel 2022, con l’invasione dell’Ucraina, abbiamo deciso che bisognava tagliare questo cordone ombelicale per ragioni politiche. Ovviamente, facendo questo, siccome dobbiamo comunque comprare gas e petrolio da fuori, ma da altri Paesi e a prezzi più alti, i costi sono cresciuti. Ora si dice: “Non siamo più dipendenti da nessuno”. Non è vero: siamo dipendenti da altri, e paghiamo di più. Questa è la realtà. Abbiamo fatto una scelta politica che ha un costo, per i Paesi, per le famiglie, per i cittadini. E si vede: l’economia va meno bene, ci sono e ci saranno conseguenze. La politica ci ha detto che questo sacrificio vale il risultato. Questo è il patto che è stato fatto.
