Il malcontento per l’addio “obbligato” ai veicoli a combustione entro il 2035, serpeggia da tempo, soprattutto in Italia. Il nuovo governo, in particolare, ha in più di un’occasione puntato sulla cautela, sostenendo che ora sarebbe un cambiamento troppo immediato e pericoloso per il settore automotive italiano. Tra i tanti, il ministro delle imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, che in un’intervista di qualche mese fa dichiarò: «In un contesto in cui si fa fatica già oggi a soddisfare la domanda energetica occorre chiedersi se abbia ancora senso perseguire l’obiettivo del 2035 così come è scritto, o se piuttosto si debba lavorare a una sua modifica, come previsto attualmente». Ad aggiungersi al coro dei critici anche il ministro delle Infrastrutture e Trasporti, Matteo Salvini, leader della Lega (nonostante le attuali turbolenze interne). A settembre dello scorso anno, aveva proposto un referendum per evitare lo stop alle auto a diesel e benzina, senza successo.
Proprio lui, intervenendo al convegno di Conftrasporto, si dice contrario a qualsiasi misura eccessiva, che porti a danni poi irreparabili, o a gap irrecuperabili con altre realtà meglio avviate. L’ambientalismo? «Ideologia folle, altrimenti saremo tutti circondati da alberelli e disoccupati». Non ci va leggero neanche con le panoramiche più disfattiste, parlando del rischio di un Cinagate, dove interessi economici e subalternità potrebbero minare la stabilità del mercato italiano: «Non vorrei che dopo il Qatargate scoppiasse il Cinagate». Il motivo? Il rischio che sia un vero e proprio «suicidio».