Il Pnrr viene spesso presentato come destino-manifesto dell’economia italiana, grande opportunità a prescindere dai contenuti. Come un atto di fede, negli ultimi tre anni e mezzo Giuseppe Conte ha rivendicato come un trionfo la conquista degli oltre 200 miliardi di euro di sovvenzioni italiane nel quadro della Recovery and Resilience Facility comunitaria; Mario Draghi ha tracciato la linea: “Pnrr o morte”, ovvero o si sarebbero spesi tutti i soldi del piano o la copiosa generosità europea sarebbe stata sprecata da Roma. Giorgia Meloni è andata oltre: conferma totale della linea Draghi, supporto al Pnrr con tenacia tale da chiederne modifiche più funzionali alle situazioni contingenti e rivendicazione a pieno titolo delle riforme portate a compimento in cambio dello sblocco delle tranche di aiuti. L’ultima, la quinta, è stata richiesta dall’Italia sul finire dell’anno. Si entra nel 2024, anno del previsto picco di spesa del Pnrr, con il piano alla sua metà. Possiamo, a consuntivo, definire questa prima metà un successo? Due illustri economisti della Bocconi, Tito Boeri e Roberto Perotti, non sono di questo avviso. E per spiegarlo hanno scritto un libro, vergato a quattro mani come gli editoriali da loro firmati per Repubblica, edito dai tipi di Feltrinelli, intitolato “Pnrr - La grande abbuffata”. La tesi del libro di Boeri e Perotti è chiara: l’Italia e il suo governo hanno, trasversalmente, sopravvalutato il Pnrr. Trasformandolo da strumento di sostegno a un’agenda di rilancio del Paese alla sua supplenza. E riciclando nel quadro del piano la vecchia tendenza della politica alle logiche occupazionali della spesa pubblica. Dal 2020-2021 ad oggi, ragionano gli autori, “la retorica sul Pnrr è cambiata, tanto che, da grande opportunità e occasione irripetibile per il paese, il Piano sembra essere diventato una sorta di obbligo cui non ci si può sottrarre, un incubo per chi è al governo”. Questo deprime la politica, che viene confinata nella sfera della famigerata “messa a terra” dei progetti senza riflettere sulle capacità operative degli enti attuatori.
Questo è ben analizzabile in un recente report della Corte dei Conti sulla capacità di spesa dell’Italia. In una relazione, la Corte dei Conti ha esaminato 31 investimenti e riforme selezionati in modo campionario, programmati per la loro conclusione naturale nel 2023, ma avviati dal 2021. Questi vanno dalla riforma del cloud per le PA (valore di 1 miliardo di euro) alle politiche per le energie rinnovabili con le cosiddette “comunità energetiche” (2,2 miliardi). Parliamo di progetti “cantierati” per un valore complessivo nominale di 35,5 miliardi di euro su cui la spesa effettiva compiuta, al 30 settembre scorso, ammontava a meno di 2,5 miliardi di euro, ovvero al 7% del totale messo a disposizione. Questi dati suggeriscono un trend generale al ribasso nella capacità del sistema-Paese di gestire le sfide future. Quanti progetti sono stati avviati per piantare bandierine politiche senza una logiche di sistema? Quanto, oltre all’ansia per la messa a terra, invece rispondono a una visione strategica del futuro del Paese? Questo è il grande dubbio di Boeri e Perotti. Secondo Openpolis, a settembre 2023, gli interventi finanziati attraverso bandi e procedure di gara superavano i 200.000, con un ammontare di risorse Pnrr pari a 120,35 miliardi di euro. Questo rappresenta poco meno dei due terzi (63%) dei 190,5 miliardi complessivamente assegnati all'Italia da Bruxelles. Tuttavia, con il trend attuale, sembra che solo una decina di miliardi siano stati effettivamente immessi nell'economia fino ad ora. Questo scenario si sviluppa in un contesto in cui il picco di spesa è ancora lontano dall'essere raggiunto, con gli anni chiave previsti nel 2024 e nel 2025. E, last but not least, c’è il rischio che la data soglia del 31 dicembre 2026 arrivi con l’Italia ancora in alto mare con molte spese effettive. Ponendo di fronte all’incubo della restituzione di molti fondi. Ergo della copertura con ulteriore debito nazionale, cioè con le tasse dei cittadini, di decine di miliardi di euro di programmi che si pensava sarebbero stati un pasto gratis europeo. Ora Meloni conferma il Pnrr come destino manifesto dell’economia italiana. Come giustificazione per ridurre al minimo gli investimenti pubblici in opere strategiche, dall’energia alle tlc, nella manovra. Come volano per una crescita anemica e salvata nel 2023 dalla tenuta dell’export, a rischio nel 2024 per il dissesto tedesco. Ma se il governo durerà i prossimi anni saranno quelli in cui verranno al pettine i nodi sulla gestione del piano degli esecutivi del passato. E visto che il governo Conte II è crollato prima dell’avvio effettivo del Pnrr e che il piano attuale è in larga parte frutto della riscrittura targata Mario Draghi e delle modifiche di Giorgia Meloni, è sui due ultimi inquilini di Palazzo Chigi che grava una fetta importante della responsabilità per aver promosso il Pnrr come alternativa ineluttabile. Ovvero come occasione d’orgoglio, prima ancora che di sviluppo economico. Su cui è partita la corsa dei partiti a finanziare micro-progetti e piani localizzati senza una visione globale del Paese. Per Boeri e Perotti “difficile è assicurare il monitoraggio della miriade di piccoli progetti su scala locale del Pnrr. Per questo è un errore l’innalzamento delle soglie per gli affidamenti diretti imposto dal governo Meloni nell’attuazione della riforma del Codice degli appalti”, in un contesto che espone il Pnrr a minacce di corruzione e sprechi, sul cui monitoraggio il Centro Italiano di Strategia e Intelligence ha pubblicato una ricercaorientata a responsabilizzare gli enti pubblici già nel 2022.
Boeri e Perotti sono chiari nelle loro conclusioni: per l’Italia “Il Pnrr era semplicemente troppo in troppo poco tempo. Gran parte dei problemi discendono da questo vizio d’origine. Il fatto è che si è voluto portare a casa più soldi possibile per poi porsi il problema di come spenderli”. Altri Paesi, come la Spagna, hanno ragionato partendo dalle necessità (infrastrutture, ambiente etc) e poi modulando le richieste in base alle necessità effettive di finanziamento. In Italia si è puntato a prendere tutto, senza distinzioni. Ottenuti i soldi, notano gli autori, “si è chiesto alle amministrazioni pubbliche di tirare fuori i progetti che avevano nel cassetto. Poi, resisi conto che anche attuandoli tutti si sarebbe arrivati a spendere solo una piccola parte dei prestiti richiesti, si è scelto di chiedere a ciascun ministero di fare delle proposte scatenando l’inventiva, soprattutto dei politici”. Il risultato? “Si è visto chiaramente anche nei programmi dei partiti per le elezioni del 2022: una lista della spesa infinita con decine di proposte strampalate, perché “tanto ci sono i soldi del Pnrr”. Boeri e Perotti, da tempo, invitano con i loro editoriali a considerare come plausibile una riduzione graduale dei finanziamenti del Pnrr. A loro avviso l’Italia potrebbe decidere, a un certo punto, di chiedere meno fondi per concentrarsi sulla necessità di spendere meglio. Il tema fu da loro affrontato ad aprile su Repubblica in risposta alla proposta della Lega di considerare un ridimensionamento del Pnrr, scatenando una battaglia tutta bocconiana con Francesco Giavazzi, editorialista del Corriere della Sera e regista del PNRR da consigliere economico di Draghi, che dalle colonne di Via Solferino chiese invece una spesa totale delle risorse. Allora Boeri e Perotti ricordavano: “Il problema è che quei soldi non sappiamo come spenderli, e rischiamo di spenderli su progetti inutili o addirittura dannosi”. Nel libro ricordano: “Ci sono parti del Piano – come quelle sulle borse di studio e le periferie urbane – che, se ben attuate, possono contribuire a migliorare il benessere di molti cittadini e ad aumentare, anche se non sappiamo di quanto, il potenziale di crescita del nostro paese. Altre componenti del Pnrr sono unicamente frutto della fretta e dovrebbero essere le prime naturali candidate a contribuire al ridimensionamento del Piano iniziale” proponendo l’unificazione delle banche dati centrali per capire i progetti necessari e quelli sovrabbondanti. Insomma, per Boeri e Perotti “stiamo perdendo” la partita del PNRR. E c’è il rischio che la grande abbuffata provochi un’indigestione da qui al 2026. Specie se le promesse del PNRR, qualora venissero mancate, diventassero debito. Pubblico, ça va sans dire.