“C’è una vergogna positiva, che prima di aprire bocca ti fa chiedere se hai veramente titolo per dire quello che stai per dire. È la grande assente di questo secolo”. Chi l’ha detto? Umberto Eco? Massimo Cacciari? O magari, scendendo di livello, Concita De Gregorio, Lilli Gruber? O potrebbe essere stata Chiara Ferragni. Acqua, acqua. L’autore è Zerocalcare, pseudonimo di Michele Rech, noto esponente della corrente romanesca del progressismo italiano. Mettiamo le mani avanti: come fumettista e autore di cartoon, è un artista coi fiocchi. Verace, ironico, attento psicologo delle turbe quotidiane da Millenials. Insomma, a giudizio di chi scrive, bravissimo a strappare lungo i bordi. Ma ciò detto, le sue opinioni da cittadino sono discutibili esattamente come quelle di chiunque altro, poichè l’arte, così come un mestiere o un qualsiasi titolo, non dà diritto, in sé, a una superiore considerazione degli argomenti che vi sono contenuti, sempre vi siano contenuti. Anche il più grande cervellone di questa Terra può farsi sfuggire una vaccata, o anche più di una (Nietzsche, genio assoluto, accanto a capolavori come la “Gaia scienza” scrisse volgarità da ubriacone di birreria, specie sulle donne, che non capiva e di cui aveva paura). Perché a fare la differenza, nel giudizio, non è il curriculum ma la forza dell’argomentazione, la sua logica più o meno stringente e la sua adesione alla realtà effettuale.
Il guaio è che a Zerocalcare non è scappata una parola dal sen fuggita. Ha fatto peggio: in due righe, ha espresso il programma politico e la visione del mondo più conformista, allineata, benpensante e, soprattutto, anti-democratica che oggi ci sia in circolazione. L’analisi del testo lo dimostra facilmente. Vergogna: rovescio del pudore, sentimento su cui è passato il diserbante tossico dell’esibizionismo da social, dovrebbe essere certamente una virtù da recuperare e da insegnare, come del resto la minimale buona educazione. Ma lui ci aggiunge positiva, e la positività consisterebbe nel farsi un esamino interiore per verificare se prima di parlare, cioè esercitare il diritto di dire la propria (libertà di espressione), si possieda il titolo per farlo. Ora, il titolo può significare due cose. O un titolo di studio (un diploma, una laurea, una specializzazione), indi per cui il guru del giro Repubblica-Espresso-Propaganda Live si iscriverebbe a quel filone di pensiero che ha in Roberto Burioni e David Parenzo i suoi luminosi fari, secondo cui, se intendi esprimere il tuo a proposito di qualcosa che ti riguarda (la salute, l’ambiente, l’inflazione, la guerra in Ucraina, l’operato del governo, praticamente tutto) devi prima aver studiato medicina, essere uno specialista di ecologia, un economista, un analista geopolitico, o un giornalista. Altrimenti, la tua povera opinione di ignorante non conta nulla, è puro fiato, vuoto a perdere, tempo sprecato. Se questa fosse l’esegesi corretta, saremmo all’ennesima richiamo da paternalisti ottocenteschi sul superiore valore dei tecnici: soltanto i tecnici dovrebbero poter essere ammessi al pubblico dibattito, ognuno per la sua competenza. Senza competenza, niente diritto di parola.
Con ciò si avrebbe né più né meno che l’abolizione non solo della democrazia (sostituita dall’epistocrazia, come dicono i colti, ossia il dominio degli esperti), ma della politica in quanto tale. Basterebbe lasciar discutere quelli con doppio o triplo alloro universitario, con master ad Harvard e un paio di consulenze per i think thank sforna-dossier, e avremmo risolto ‘sta seccatura della dialettica fra interessi in conflitto, delle elezioni e degli altri residui contentini di cui si pasce il popolo. Avviso per duri di comprendonio: contestare questa posizione - scusate la parolaccia - tecnocratica, non implica giustificare l’ultimo che passa a sbraitare, bava alla bocca, il suo odio, che so, per i vaccini, o che vomita idiozie strampalate sull’universo mondo. Tuttavia in democrazia, piaccia o meno, anche il cretino ha diritto all’esistenza, e perciò anche a manifestarsi. È il prezzo che paga a sé stessa. L’unico limite, con buona pace di Popper, è l’uso della violenza: se per affermare la mia tesi tocco con un dito chicchessia, scatta il codice penale, punto e a capo. Ovvio, poi, che la prevalenza del suddetto cretino genera catastrofi, ma spostare la linea dell’intelligenza è proprio il compito del confronto/scontro tra idee (o fesserie), che, quanto più libero è tanto più traduce, o dovrebbe tradurre, i reali termini dei rapporti di forza in campo. Per questo, semmai, il vero fronte di battaglia è sull’aumentare i confini della libertà, non farli arretrare, non limitarli, espellendo a priori le opinioni differenti, anche fossero le più aberranti e indifendibili. Sta a ognuno, almeno in teoria, confutarle e contrastarle. Non imbavagliarle.
L’altra interpretazione dell’oracolo è la versione più soft della prima, vale a dire che il singolo dotato di apparato mandibolare dovrebbe azionarlo solo se titolato, nel senso di coinvolto, implicato nella materia del contendere. Pertanto, per esempio, solo se se sono ucraino posso davvero comprendere perché Putin ha deciso di invadere il mio Paese (si è sentita anche questa), solo se sono un imprenditore posso capire le crude difficoltà di creare reddito (mentre gli straccioni disoccupati o sottoccupati, che quelle difficoltà le vivono saltando i pasti, non sono in grado, ontologicamente fannulloni come sono), solo se sono attivista lgbtq posso rendermi seriamente conto della discriminazione di cui sono fatte oggetto le minoranze elencate, o di rovescio, solo se sono padre o madre riesco a capacitarmi della contrapposta discriminazione di cui è vittima, secondo gli attivisti generalmente cattolici, la famiglia “tradizionale”. Solo se guardo il mondo da un oblò sono nelle condizioni di dare un punto di vista aderente all’oblò, di cui proverbiale è la noia. Naturalmente sono estremizzazioni per assurdo - anche se mica tanto. L’esito, però, è identico a prima: in una sorta di trionfo della nicchia, del puzzle in cui la società verrebbe a spezzettarsi, la facoltà di parlare di quel certo tema sarebbe esclusivo attributo di chi ne è investito in via diretta.
Se da una parte è comprensibile e sottoscrivibile, anche qua, neutralizzare quell’immondo effetto-chiacchiera-su-qualunque-cosa, stile Bar Sport universale, dall’altra non è giustificabile l'ambiguo disprezzo per la possibilità di verbo e intervento, poniamo, sull’autonomia regionale a uno che non sia veneto o lombardo perché, da siculo o marchigiano, non può immedesimarsi nell’ansia autonomistica delle bimbe di Zaia. Allora, dividiamoci in compartimenti stagni, in isole e isolotti, ciascuno sovrano sul proprio orticello, e ripristiniamo il Medioevo in cui si decideva con un complicato sistema di corporazioni, città franche, villaggi, feudi e quant’altro (il che presenterebbe pure alcuni vantaggi, ma andremmo off topic). Alle corte: Zerocalcare, e tutti gli snob con l’aria dimessa come lui, buttandola lì come fosse un’ovvietà fa in realtà il gioco del padrone, fa l’amico del giaguaro. Se annulli alla radice il significato di qualcosa detta dal più umile degli sfigati, che mettiamo pure la spari nella maniera meno umile possibile, urlando e berciando, e lo azzeri in base alla preparazione specifica o al livello di coinvolgimento, quel che stai facendo è privare quell’espressione della sua valenza extra-tecnica: sociale, politica, antropologica. Se un borgataro inveisce con modi animaleschi contro gli immigrati, Zerocalcare può liquidarlo come un essere antropologicamente inferiore, ma così sarà lui a dispensarsi dallo sforzo di individuare i motivi, anche del tutto inconsci, per cui il becero si appaga del razzismo più sfrenato. Dargli solo dell’imbecille non elimina il problema del razzismo che tu vorresti, a parole, spazzar via. In fin dei conti, è semplice: se fai lo snob, l’ignorantazzo sei tu.
PS: chè poi, scusate, ma Zerocalcare che titolo ha di spargere questi semi di aurea consapevolezza? Cos’è, un filosofo? Ahò, a bbello, ma chi sei: Socrate?