Forse El Jockey (Kill the Jockey) di Luis Ortega non vincerà il Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia 2024: troppa forte la concorrenza di Maria di Pablo Larrain, Queer di Luca Guadagnino e Campo di battaglia di Gianni Amelio, solo per citarne alcuni. Forse, però, non arriverà nemmeno nelle sale italiane (non è prevista, al momento, una data di uscita). Ed è un peccato. Perché al di là della confusione che caratterizza soprattutto la seconda parte, in cui si materializza un cambio di sesso del protagonista, una delle varie “morti e rinascite” che si susseguono nel corso del film, l’opera di Ortega si spinge, quasi esagerando, ma con consapevolezza, sulle soglie dell’incoerenza. El Jockey è la storia di Remo Manfredini (Nahuel Perez Biscayart), talentuoso fantino di Buenos Aires che corre per un gruppo piuttosto mal assortito di gangster. Parte della squadra è anche Abril, interpretata da Ursula Corbero, Tokyo ne La casa di carta. E chissà che, per lei, questo film non possa essere una svolta: forse la miglior performance della sua carriera. Le gare, però, non vanno bene: Remo è dipendente dall’alcol, assume ketamina (sì, la droga per i cavalli) e ormai la sua vita di coppia con Abril sembra essere arrivata a un punto di non ritorno. Peccato che quegli stessi vizi erano ciò grazie a cui il fantino è diventato una leggenda (“La miglior scuola è sempre la disgrazia”). Senza “aiuti” non riesce più a vincere. Per tornare se stesso, Remo deve “morire per poi rinascere”. E dopo un incidente, la seconda vita del campione, che non sarà l’ultima, può avere inizio: solo a quel punto Remo completa la sua “transizione”.
Nella seconda parte del film, dicevamo, cresce la confusione: chi è Remo? Chi sono i gangster che prima lo proteggono e poi lo inseguono? Quell’amore omo-etero-bi-erotico, non è chiaro, c’è sempre stato? Oppure è il nuovo volto del fantino ad aver cambiato anche i suoi aguzzini? Al di là dell’intreccio, però, ciò che emerge è il contrasto tra l’immobilità delle inquadrature, la stabilità della cornice e la voglia dei personaggi di uscirne: una ribellione morale, estetica e logica, con pistole che sparano, sì, ma non quando viene premuto il grilletto. Su tutte, ovviamente, è la metamorfosi di Remo a essere in primo piano: aggira le regole delle gare sull’antidoping ed esce (letteralmente) dal percorso/circuito ordinario. E sono in molti ad aver notato i riferimenti del regista Ortega. Non ci sono solo le eco di Aki Kaurismaki e quella freddezza dei suoi personaggi, che in verità maschera un’inquietudine esplosiva; la recitazione di Biscayart ricorda un po’ quella del protagonista di Holy Motors di Leos Carax, mentre non ci sembra impossibile che per alcune scene Ortega abbia pensato a Stanley Kubrick e il suo 2001: Odissea nello spazio. Ed è dunque la tensione tra la fermezza della macchina da presa e il movimento dei personaggi a produrre quell’energia che fa evolvere il film e che quasi trascina la storia verso il suo epilogo. E la domanda: “chi è chi?”, resta, forse, irrisolta. Siamo partiti da qui: El Jockey non vincerà quest'edizione della Mostra. Speriamo che, quando la kermesse del Lido finirà, il pubblico italiano possa vederlo in sala.