Attorno al 1987 tutta Italia conduceva una gagliarda pacifica rivolta contro il bigottismo, tramite un urlo di battaglia inneggiante alla sana e consapevole libidine, che avrebbe salvato ‘il giovine’ dallo stress e dall’azione cattolica. Era esploso il fenomeno musicale Zucchero, che a quanto si è scoperto faceva compagnia a parecchi liceali di allora. Era il momento di questo nuovo cantante che univa sonorità blues e rock a una voce graffiata, che si muoveva come quello più famoso di lui, che aveva scosso gli ormoni con You can leave your hat on nel bollente show di quello schianto di Kim Basinger, mentre arrapa*a un Mickey Rourke che ancora non si era gonfiato la faccia. Insomma, anche se fuori gli U2 erano appena usciti con The Joshua tree’ e bombe devastanti come i Nirvana, pure noi tutto sommato avevamo materiale da scrivere nel grande libro della Storia, roba che avremmo potuto ricordare. E avere qualcosa da ricordare non è affatto poco, lo abbiamo imparato, ormai. Erano anni potenti, quelli, tanto per peccare di nostalgia al pari di vegliardi stanchi e cinici. Avevamo tra l’altro anche la hit Con le mani, sempre di Zucchero, con le quali potevamo fare un sacco di cose, sbucciare le cipolle, accarezzare gatti e perfino “dire di sì”. Zucchero Adelmo Fornaciari ormai aveva fatto breccia nel tessuto musicale italiano e internazionale, avendo superato già da un po’ con successo l’odiosa impasse del sottostare ai diktat di dover essere altro da sé, cantando brani sanremesi fedeli alla linea del perbenismo italiano. Con grande determinazione si era imposto di fare ciò che sentiva aderente al suo animo emiliano, di persona cioè proveniente da una terra, l’Emilia, appunto, parecchio fertile a livello culturale e musicale. Cosa accidenti c’è in Emilia, che partorisce il fior fiore degli artisti italiani più interessanti di sempre? La rossa Emilia, la grassa, fervida, operosa Emilia, quella dove “la seduzione è dormire”, per dirla con Giovanni Lindo Ferretti, quando l’inverno è rigido e sonnolento e l’estate è torrida e immobile e induce al parossismo e alla paranoia. Zucchero proviene da quei campi, da quel contesto di Po e campagne, dove iniziò a costruirsi i suoi gusti diretti a un intimismo legato alle radici, alla storia familiare, alla nostalgia per la terra e per gli abissi dell’anima in un suo personale lirismo, ma sempre “brindando alla vita”. Tutto questo e qualche altra cosa è tracciato nel docufilm di Valentina Zanella e Giangiacomo De Stefano, che ripercorre vita e carriera di Zucchero soffermandosi sul cross road tra Emila-Romagna e Louisiana, territorio che il cantante avverte subito familiare, visitando le rive del Mississippi nei pressi della sconfinata swamp che delimita New Orleans. “Quelle atmosfere paludose, quella vegetazione, non mi apparivano per nulla estranee, perfino il pesce gatto che mangiavo li si mangia anche a casa, in Emilia. A New Orleans la musica pervade ogni strada, mi sento bene lì”, spiega Zucchero.
A fargli da spalla ci sono i colleghi illustri che si sperticano in complimenti a lui diretti come Bono Vox, Eric Clapton, Jack Savoretti, Paul Young, Roberto Baggio, Francesco Guccini, De Gregori, Brian May, Sting, corredati di produttori e compagni di viaggio. C’è Pavarotti, che ha nobilitato concerti in cornici uniche al mondo come Piazza San Marco a Venezia con Miserere, brano della rinascita dopo la profonda depressione che inghiottì Zucchero in seguito alla separazione molto sofferta dalla sua donna. Sono uniche le lodi che il cantante ha diretto alle donne e, c’è da dirlo, di grande sensibilità; brani che ancora oggi tutti conservano dentro di sé, e quando un brano viene ricordato, così come frasi di film, di letteratura, significa che ha oltrepassato il setaccio generale, accedendo all’archivio dei classici immortali. Nonostante ciò, nonostante il ripercorrere della carriera di Zucchero negli anni, dei sodalizi con miti internazionali della musica, dello stakanovismo disciplinato del cantante ai concerti e alle prove, il docufilm restituisce una bizzarra sensazione di un artista che “non passa mai il turno per essere tra i numero uno”. La regia forse avrebbe potuto approfondire maggioramente il personaggio Adelmo Fornaciari: regala sì dei brevi affreschi dell’anima dell’artista, ma tralascia probabilmente vicende che avrebbero potuto chiarire di più la genesi dell’unicità, soprattutto del coraggio di seguire la propria strada. Toccante il racconto, però, del barattolo di terra prelevato dall’orto di infanzia del cantante, nello strazio di doversene separare per trasferirsi con la famiglia in un luogo marino – Forte dei Marmi – avvertito ostile, estraneo, per un bambino dal carattere mite e dolce come lo zucchero, proveniente da Roncocesi, in pianura. Pare di vederlo, quel bimbo, mentre assiste alle lezioni a scuola e dalla tasca estrae il barattolino per annusare la sua terra e sentire dentro di sé la consolazione e il conforto di casa sua.
La nostalgia di casa e delle origini probabilmente è quel che più arriva anche nel racconto che dà il titolo all’album Chocabeck. Zucchero teneramente allude ai ricordi paterni, quando da bambino veniva esortato ad aspettare il premio di un dolcetto che non sarebbe arrivato mai, il Chocabeck, appunto, in dialetto “becco che becca a vuoto”, avendo lui già mangiato abbastanza. Emerge anche il rigore, l’operazione di continua sottrazione, il “neti neti”, detto sanscrito per negare, negare, fino a che non resti “null’altro che la verità”. E l’idea che come talvolta avviene, “nella tristezza possono accadere le cose migliori”, quelle che forgiano lo spirito e danno l’input all’arte, della quale “tutti ne vogliono un po’, mettendoci in pericolo di morire nel grande vuoto che resta”. Nel complesso però, la sensazione è che il documentario sia uno spaccato che non porti chi guarda del tutto nel mondo di Zucchero, ma che lasci lo spettatore sempre un po' dalla parte del pubblico che assiste.