Poi ci si ritrova “woke” a parlare di “curvy”. Basta guardare l'ultima docuserie Netflix per capire perché adesso basta niente per toccare nervi scoperti: perché abbiamo già detto di tutto. Perché abbiamo già visto di tutto. A partire dai corpi usati come fenomeno da baraccone, in un'idea di magrezza assoluta e invalidante per chi, al contrario, la magrezza non ce l'ha.
Per chi abbia avuto la fortuna di scampare l'adolescenza negli anni 2000, cos'era la sensibilità di quel periodo ce lo ricorda Fit for tv: il lato oscuro di un reality. Tre puntate incentrate sul reality made in Usa The Biggest Loser: un successo enorme di pubblico, con le persone che sgomitavano per entrare, i telespettatori che si appassionavano e l'America pronta ad eleggere a nuove celebrità i protagonisti che, dopo essere passati dalle Forche Caudine delle telecamere, potevano finalmente portare in trionfo un' immagine nuova di zecca.
Ma in cosa consisteva il viaggio dell'eroe all'interno di The Biggest Loser? Nella perdita di peso, tanto peso. Chili che si scioglievano come neve al sole, passando da un esercizio fisico intensissimo, gli urli dei personal trainer e tutta una serie di umiliazioni sottili, perfette per sviluppare altri disturbi alimentari. Come il regime nutrizionale di poche centinaia di calorie, ore di allenamenti estenuanti, l'ingresso in stanze piene di cibo per tentarli: tutto per vedere come ansimano e soffrono; per dimostrare che i grassoni, in fondo, sono grassoni solo perché deboli di carattere.
Andato in onda dal 2004 al 2020, diciotto gloriose edizioni, The Biggest Loser era basato su un concept molto semplice: un gruppo di persone in forte sovrappeso vive insieme per 30 settimane, durante le quali si impegna a dimagrire. Chi dà l'addio al maggior numero di chili, porta a casa 250mila dollari, la popolarità e uno specchio che gli restituisce un riflesso irriconoscibile.
Una volta fuori poi, terminate le ospitate in tv, si sarebbe capito che l'addio era in realtà un arrivederci: perché il rapporto problematico col cibo era peggiorato, il corpo sottoposto a uno stress fortissimo, il metabolismo danneggiato in maniera irreversibile, il giudizio negativo sulle persone sovrappeso amplificato. Di supporto psicologico ovviamente, nemmeno a parlarne: né durante la permanenza nel programma, né tantomeno fuori.
Del resto, il cinismo del programma era già tutto nel titolo: il più grande perdente. Qui con doppia accezione: sia quella di sfigato, che quella di persona che riesce a perdere il maggior numero di chili. Quindi lo stesso elemento, il peso, determina il passaggio da bruco pezzente a crisalide splendente: perché si sa, questo è il sottotesto, se vogliono essere socialmente accettati, i grassi devono essere magri. È sull'insicurezza, sul senso di inadeguatezza, che il reality faceva leva.
Se dimagrire a tutti i costi diventa l'obiettivo, si ingurgitano le sospette pillole di caffeina gentilmente offerte dietro le quinte. Si accetta che il proprio corpo venga portato allo stremo; si ascolta persino una richiesta assurda come quella di dover ingrassare per poter entrare nel cast.
“Non cercavamo persone in sovrappeso e felici. Cercavamo persone in sovrappeso e infelici”, spiega il produttore J.D. Roth: più funzionali alla spettacolarizzazione, più disposte ad accettare di diventare zimbello per l'intrattenimeno televisivo. Il prezzo da pagare per, finalmente, essere viste come persone anziché come corpi.

Nella docuserie Netflix vengono intervistati sia alcuni ex concorrenti che autori e allenatori, nessuno dei quali pentito o che comunque abbia messo in dubbio il proprio operato; that's show business, bellezza. Il pubblico vuole intrattenimento, gli si dia senza pensare troppo alle conseguenze. Di più: il timore era che i telespettatori avrebbero rigettato lo show, perché gli americani avrebbero potuto riconoscervisi; invece, forse per una sorta di Sindrome di Stoccolma, ne hanno decretato la longevità.
Ciò che colpisce, è che l'ingresso a The Biggest Loser fosse considerato una fortuna toccata a pochi eletti. Alla fine, è un po' lo stesso meccanismo di tanti programmi che ci sono passati davanti agli occhi, anche se meno sfacciati: nessuna delle malattie imbrazzanti di Real Time ad esempio, sarebbe diventata tale, se i diretti interessati avessero visto una luce di speranza fuori dal potere e dai mezzi della tv. Con la differenza che in The Biggest Loser nessuno è guarito: i protagonisti hanno invece ottenuto problemi di salute causati del drastico regime alimentare, la frustrazione del fallimento dopo aver ripreso peso. Era chiaro che le condizioni del programma, avulse da ogni contesto reale, non avrebbero retto a lungo.

Il documentario contrappone le testimonianze di alcuni ex concorrenti alle risposte spavalde di chi, invece, era alla cabina di comando del reality. La regista Skye Borgman non si è fermata alla superficie: ha messo in evidenza le ombre dello show, sottolineando come gli autori tv non abbiano avuto remore a sacrificare il benessere fisico e psicologico dei concorrenti. Intanto, l'America rimaneva attaccata allo schermo.
A guardare le immagini oggi, sembrano passati secoli: un simile reality, non potrebbe mai andare in onda. I social insorgerebbero, ci sarebbe un esercito di utenti sul piede di guerra e di influencer pronte a vendere prodotti, ma alternandoli a messaggi sulla body positivity; le accuse di bodyshaming pioverebbero, si parlerebbe di grassofobia. Probabilmente più per ipocrisia che reale convinzione, eppure avremmo la consapevolezza che ci sia qualcosa di sbagliato nel trattare i concorrenti così.
Alla fine, il famigerato “woke” ha fatto anche cose buone.
