Il dubbio è l’altra faccia della fede. Mettendo in discussione i dogmi si può arrivare a credere in maniera ancora più decisa. Dubitando, però, si rischia di finire all’estremo opposto: nella miscredenza. Cosa è vero e cosa no? Esiste Dio oppure è solo una creazione umana? Quanto contano le dimensioni a letto? Domande che Heretic, il film A24 di Scott Beck e Bryan Woods con Hugh Grant mette in fila queste questioni. Due ragazze mormoni, Sorella Barnes e Sorella Paxton (Sophie Thatcher e Chloe East), sono incaricate di portare opuscoli informativi sul culto che hanno abbracciato. Barnes ha qualche certezza in più (sia religiosa che personale). Paxton, al contrario, non è ancora riuscita a convincere nessuno a unirsi alla Missione. Quel giorno le due devono andare dal signor Reed, interpretato da Grant, perché l’uomo ha dimostrato interesse nella dottrina. Il cielo diventa più scuro, le ragazze legano le bici fuori dal cancello e bussano alla porta. Il padrone di casa le invita ad entrare con un trucco da cartone animato Disney: la moglie sta preparando la crostata di mirtilli. In salotto si discute prima di argomenti frivoli, come il fast food preferito e le bibite gassate. In seguito, si passa alle controversie teologiche: come mai la poligamia è considerata peccato? Le sorelle capiscono che qualcosa non va. Nella stanza c’è un odore di mirtillo emanato da una candela: né la moglie né la crostata sono reali. Oltre il corridoio buio c’è una camera tappezzata di libri; un sipario sta sulla parete opposta di un proiettore; due porte chiuse che conducono chissà dove. Reed si mostra nella sua essenza: quella di un uomo ossessionato dalla religione. A quale dottrina si può dare fiducia? Quale Dio è quello vero? Quale testo sacro è il più attendibile? E che dire degli altri culti, nati in civiltà anche molto diverse, eppure così simili tra loro? Inizia il gioco. Iniziano le domande. Credere o non credere, questo è il problema. Ma la scelta non è naturale: tutto è calcolato. Il controllo è l’arma comune ai registi e ai custodi del Credo.


Il punto centrale non è l’esito finale di Heretic. Semmai ciò che conta è il percorso: il dubitare, appunto. I tre personaggi instaurano un dialogo che assomiglia a una disputatio medievale, con le studentesse che cercano di confutare la questiones di volta in volta proposte dall’insegnante. Dopo il confronto, però, si deve formulare una teoria. E se l’obiettivo è la dimostrazione dell’esistenza - o dell’inesistenza - di Dio, il passaggio richiede qualcosa in più della logica. Non a caso il film, per sottolineare questo salto, entra nella sua fase più smaccatamente horror. La soluzione sta in una botola, un buco nel terreno che - quasi psicanaliticamente - sembra suggerire che qualcosa si è perso. Funziona il burattinaio interpretato da Hugh Grant, che in questa seconda parte di carriera sembra aver deciso di sperimentare, accettando di essere ridotto a Umpa Lumpa in Wonka, e rinunciando ai porti sicuri dei film di Guy Ritchie, ma senza lasciarsi del tutto alle spalle le british rom com (è infatti nel quarto film tratto dai romanzi di Helen Fielding, Bridget Jones - Un amore di ragazzo, insieme a Renée Zellweger). Senza gridare al capolavoro, Heretic è un film ben congegnato, e Grant si è meritato la candidatura ai Golden Globe. Ma chi parlava di un’interpretazione da Oscar (o almeno sperava in una candidatura – difficile per il protagonista di un horror), forse ha esagerato.
