Sei hai un gatto, o se ce l'hai avuto, ti sarà per forza capitato che la tua piccola tigre in miniatura ti abbia portato un cadaverino omaggio in casa, come segno di riconoscimento per tutte le scatolette che quotidianamente gli regali. I felini hanno una deontologia, e sanno che soltanto il cane muove la coda per niente, e forse nemmeno lui, quindi capiscono che è il caso di ricambiare il vitto che - senza motivo per loro apparente - ricevono, costituendosi come forza lavoro tale da offrirvi a loro volta il cibo che sarebbero in grado di procurarsi da soli.Come se volessero dire: “Ho tutte le capacità per trovarmelo da solo, il cibo; se mangio le robacce industriali che mi offri è per comodità”. In effetti, non solo ne hanno le capacità, ma si spingono ben oltre il topino martoriato. Nature ha pubblicato uno studio, intitolato A global synthesis and assessment of free-ranging domestic cat diet, in cui viene analizzato l'impatto ambientale delle attività predatorie dei gattini pucciosi. Il gatto domestico, dati alla zampa, risulta essere una adorabile macchina da guerra in grado di sbranare uccelli, mammiferi e insetti, includendo, in un totale di 1800 specie differenti, anche un 18% gourmet di animali protetti o in via di estinzione.
Ad Angri (Salerno), invece, il gatto Leone è stato scuoiato vivo e lasciato agonizzante in strada. Ovviamente, a differenza del gatto che ha un motivo comportamentista per cacciare, per noi che consideriamo l'uomo come animale razionale, risulta impossibile da spiegare come e perché sia possibile che un umano abbia potuto compiere un atto del genere. Eppure è successo. Detto questo, il singolo caso di atteggiamento psicotico dovrebbe farci riconsiderare il concetto stesso di razionalità? Dovremmo dire che c'è una cultura che spinge all'odio verso gli animali? Cerchiamo di andare oltre la retorica. Tenendo il fermo il punto per cui la specie umana ha raggiunto il dominio, concreto e ideologico, su tutti gli altri animali, questo potrebbe anche essere vero, in linea di principio. La storia delle religioni, esclusi gli egizi che avevano delle divinità zoomorfe, ha sempre incluso il sacrificio degli animali per far piacere agli dei, fino ad arrivare alla sublimazione contemporanea della condanna alla bestemmia, tradizione popolare anch'essa, che poi è l'associazione del dio all'animale. La filosofia ci ha messo anche del suo, tentando da sempre di definire l'umano per differenza dagli altri animali. Secondo il rapporto zoomafia della Lega Anti Vivisezione, in media ci sono ogni giorno 25 nuovi fascicoli per reati contro gli animali e 13 persone denunciate. I reati riguardano, oltre all'efferatezza dei casi limite come quello del gatto Leone, anche attività di criminalità organizzata, dalle corse clandestine ai mercati del pesce, fino alla macellazione clandestina.
La statistica è impietosa, e come per quanto riguarda i dati relativi alla violenza sulle donne, ci ricorda che troppo spesso le modalità relazionali si inscrivono nel solco di un rapporto di dominio, e se questo, come ci insegna lo studio di Nature sui gatti, è qualcosa che naturalmente appartiene al regno animale, da un altro punto di vista ci impone di riflettere seriamente sulla differenza tra l'umano e il resto degli esseri viventi, compresi gli altri esseri umani. Di nuovo: stiamo lontani dalla retorica. Il senso di ingiustizia che accompagna la percezione che abbiamo di un crimine non può fare a meno di orientarsi intorno alla spiegazione che ci possiamo dare, rispetto alle cause che l'hanno provocato. Spesso, troppo spesso, non riusciamo a dare un senso a ciò che è capitato, come se l'animale razionale non riuscisse a rendere conto dell'irrazionalità dei propri simili. È proprio in base a questa mancanza di significato che dovremmo orientare la ricerca, al posto di affannarci nel tentativo di dare una risposta ragionevole e razionale, e ha ancora meno senso il tentativo di universalizzare la colpa, così come di universalizzare il dolore. Non siamo mai stati davvero tutti Newyorkesi l'11 settembre, così come non siamo mai stati tutti Charlie Hebdo, e nemmeno siamo tutti colpevoli. Al contrario, l'assimilazione del dolore con un post sui social, così come l'ammissione di colpa, sono un tentativo di aggiungere ulteriore separazione al dolore, all'empatia. Ci si dichiara tutti colpevoli per non sentirsi colpevoli davvero. Come quando il gatto ti lascia il piccione sul tappeto, e ti tocca pure ringraziarlo.