Due luglio 1897, Londra concede a Guglielmo Marconi il brevetto per il primo sistema radiofonico. Anno 2023, la radio è ancora qui dopo aver navigato qualsiasi mare e resistito a qualsiasi burrasca. Ancora oggi dici radio e un possibile confronto è dietro l’angolo. Qualche settimana fa, ospite a Tintoria, stand-up comedy teatrale condotta da Daniele Tinti e Stefano Rapone, Linus ha dichiarato: “L’unica vera minaccia, per la radio, è quella delle piattaforme di streaming musicale. Alla domanda “Se tu ascolti la radio per la musica, perché devi ascoltare la radio?”, ha poi risposto: “Noi cerchiamo di dare alla gente quel perché, che è la personalità dei programmi e magari, nel nostro caso, il fatto che possiamo essere divertenti. Chi non capirà il cambiamento probabilmente farà molta fatica nei prossimi anni”. Un’osservazione che ha spinto Marco Stanzani, storico manager dei Lùnapop, nonché titolare dal 2002 di Red&Blue, agenzia musicale, ufficio stampa e promozione digitale nel settore discografico, a pubblicare su Facebook, lo scorso 22 novembre, un post abbastanza tosto sul rapporto (a suo avviso incrinato) fra radio e programmazione musicale. Una posizione forte, che abbiamo fatto commentare a Claudio Astorri, consulente radiofonico e professore del Master in Comunicazione musicale all'Università Cattolica di Milano, già station manager di Rtl 102.5 e Rds e, attualmente, consulente di direzione di Rai Radio 2.
Marco Stanzani, via social, prendendo spunto dalle parole di Linus, scrive: “La radio si è convinta di poter fare la differenza solo coi contenuti speakerati e si è servita della musica solo come veicolo per convincere gli ascoltatori a non cambiare canale prima che fosse riaperto il microfono. In quest’ottica non vi è stato più spazio per la musica emergente, ma solo per chi portava in dote un cospicuo quoziente di notorietà o, ancora meglio, uno stuolo di follower (...) Questo ha determinato una programmazione uniformata a pochi titoli che attraverso la radio sono divenuti hit (...), ma ha contribuito ad occludere ogni velleità di programmazione su titoli che, pur risultando meritevoli anche per voce degli stessi capi programmazione, non 'verranno suonati' perché magari mancano quei requisiti di notorietà”. Cosa ne pensa?
Stanzani è un discografico: vuole che le radio programmino ciò che piace a lui. Se non lo fanno, per lui la radio non esiste. La sua è una posizione ampiamente nota e con lui ho già avuto modo di polemizzare in passato. Vorrei ricordargli che le radio versano ogni anno più del 5% del loro fatturato alla discografia, molto più di quanto faccia Spotify. Considerando ciò di cui si occupa, non so quanto gli convenga prendersela con le radio.
Stanzani sostiene anche che le radio non siano più un buon veicolo per promuovere musica. Dice: “Se io scrivo la nuova Imagine e Tiziano Ferro pubblica una brutta canzone, le radio programmeranno Tiziano per i motivi di cui sopra (i requisiti di notorietà, nda). Pertanto, se i nuovi Lùnapop che portammo al successo partendo dalla radio, uscissero ora, si renderebbe necessaria una strategia molto differente”.
La risposta è in un’analisi da me condotta. Intanto diciamo che la radio, a differenza di Spotify, è un essere vivente. La voce che ci parla, la redazione, gli ospiti creano un mondo live distantissimo da Spotify. Questo è un vantaggio che anche Linus ha ben presente. La radio non è un elettrodomestico, bensì la somma di tutti gli ascolti di tutte le stazioni, un gigantesco universo di relazioni. Nella mia analisi di Format Lab si può notare, in base a sesso ed età, come cambiano i gusti e le scelte delle persone. Vediamo varie categorie di stazioni radiofoniche: le stazioni dance/rhythmic, le contemporary hit radio, le radio rock, le personality radio (di cui fa parte Radio Deejay, brand fortissimo per una stazione che ha nella conduzione il suo drive principale), le radio vintage, le adult contemporary e così via. Voglio vedere come fa Stanzani a promuovere un pezzo rock, per esempio, senza destinarlo a una radio rock (e non parlo solo di Virgin o Radiofreccia). Perché le radio non sono solo i grandi brand. Prendiamo Mitology, una radio toscana che fa 175mila spettatori al giorno. Della radio si può raccontare ciò che si vuole, ma la realtà è che quasi ad ogni persona ne corrisponde una.
Di questo dovrebbero solo gioire i discografici…
Il fatto è che questo il pubblico lo sa, ma i discografici no, e infatti un pezzo lo propongono, indistintamente, a tutte le radio come se fosse un vestito per ogni stagione. Il pubblico invece è ben consapevole di quale sia il tipo di rapporto che lo lega alla “sua” radio. Il formato che oggi forse rischia di più è quello delle contemporary hit radio, che più di altre stentano ad offrire qualcosa di diverso rispetto a Spotify. Sulle radio rock, invece, per fare un esempio, la musica è narrata. In quel caso la radio fa un’opera di informazione musicale che lo streaming si sogna. Ringo ogni giorno la musica te la racconta, te la fa vivere, ti dà una sensazione di esplorazione che le playlist non sono assolutamente in grado di proporre. E poi, davvero, possiamo ancora dire, nel 2023, che la musica per radio “è tutta uguale”? Che abbiamo a che fare con una “programmazione uniformata a pochi titoli”?
Ci spieghi perché non è vero.
Chi lo afferma non solo non ha mai dato un’occhiata a Format Lab, ma neppure alle Format Charts, classifiche che grazie a EarOne studiano le differenze di programmazione delle varie emittenti (le classifiche per formato sono molto più utili e indicative della classifica generale). Si tratta di uno studio settimanale, che conduco da due anni, che rivela differenze mastodontiche a seconda del formato preso in considerazione. Il discorso sulla omogeneità della programmazione è sbugiardato dai dati e i discografici, anziché sparare nel mucchio, farebbero meglio a monitorare con attenzione il segmento radiofonico in cui vogliono inserire un determinato pezzo e “colpire” quel segmento, quel target. La radio fidelizza molto bene le comunità, ogni brano deve quindi provare a trovare la propria casa, la propria comunità. Ergo, la propria stazione.
Ma la radio italiana, nel 2023, è davvero per tutti?
Sì, sebbene sia giusto riconoscere che da noi, per esempio, mancano ancora una radio solo hip hop e una radio genuinamente classic rock. Detto questo… Cambiamo ritornello, dai. La radio sta raggiungendo i quotidiani come mole di business, siamo tutti incapaci? Il tema, semmai, riguarda i giovani.
In che senso?
Nel senso che il punto non è la minaccia di Spotify o la musica tutta uguale, quelle sono osservazioni prive di sostanza. Diciamo piuttosto che la radio non ha ancora capito bene che i giovani sono dei creator di contenuti. Come coinvolgere questa generazione che deve sempre interagire? Che se fa una foto la deve immediatamente pubblicare?
Per quanto la radio abbia sempre trovato la forza di rinnovarsi e rigenerarsi, la questione relativa ai metodi obsoleti con cui vengono ancora rilevati i dati di ascolto sembra come ostacolare un vitale processo di continuo rinnovamento. È notizia della scorsa estate che la Rai ha interrotto il rapporto con Ter, la società degli editori radiofonici che produce i dati di ascolto, “avendo constatato in questi anni numerose criticità metodologiche”.
Si tratta di un problema molto grave all’interno dell’industria radiofonica. Predico da anni, prima che lo facesse la Rai, la rilevazione elettronica, “non basata sul ricordo”, dei dati di ascolto. La Rai ha motivato la scelta di interrompere i rapporti con Ter in modo molto chiaro. Va a tal proposito ricordato che Audiradio, fino al 2010, era un Jic (Joint Industry Committee), ossia una società che si basava su una fusione tra editori radiofonici e grandi agenzie e centri media-pubblicitari. Ciò significava che prima del 2010 si doveva parlare di metodologie in accordo proprio con chi rappresentava, e tuttora rappresenta, gli investitori (i clienti pubblicitari). Sono anni che Rai invita Ter a trasformarsi da comitato puramente radiofonico a Jic. Questo per avere ricerche ben fatte, puntuali. Lo scorso luglio, dopo circa 13 anni, Agicom ha imposto a Ter di diventare un Jic (coinvolgendo il mondo della pubblicità) indicando anche una nuova metodologia di rilevamento dati, una miscelazione intelligente di vari tipi di misurazione. Oggi esistono app modernissime che registrano tutti i suoni che una persona incamera quando va in giro, quando entra in un negozio e così via. Un sistema che negli Stati Uniti, per dire, esiste dal 1996 e che ha dato grandi spinte alla radio americana. Qui si ha paura a cambiare, la Rai ha fatto pressione e a un certo punto si è stufata di insistere. Risultato? Ter non ha ascoltato né la Rai, né l’ordinanza dell’Agicom, così nel 2024 i metodi di rilevamento non verranno corretti. Il tema è quindi problematico: la radio ha urgente bisogno di queste novità in ottica commerciale, non editoriale. C’è bisogno, da questo punto di vista, di una radio nuova e la Rai, al momento, non può permettersi di stare dentro un organismo che non rispetta i dettami di Agicom.