Quando nell’estate del 2022 ho posato gli occhi sulla copertina dell’album Renaissance di Beyoncé, lei pochissimo coperta in sella a un cavallo di luce, creato per l’occasione dall’artista visivo Nusi Quero (attivo in precedenza in Italia con la giovane e eversiva Yoniro), due sono stati pensieri che hanno preso forma nella mia mente: primo, Beyoncé sta per tirare fuori una mina femminista, del resto il suo Lemonade è stato e tutt’ora è una sorta di manifesto dello woman empowerment in salsa afroamericana, la citazione alla Lady Godiva del preraffaellita di seconda generazione John Collier piuttosto evidente, anche se lì a coprire le nudità erano i capelli rossi della modella in salsa Lizzie Siddal, qui un bikini anch’esso di luce, e secondo, sia mai, Beyoncé vuole mettere i puntini sulle “i” riguardo il coinvolgimento della comunità afroamericana nella storia della conquista delle frontiere, del west. Su questo ultimo fronte si sono già mossi in passato cineasti come Melvin Van Peebles, e più recentemente The Harder They Fall, ma vederla in sella a un cavallo, Lady Godiva o non Lady Godiva, a quello mi ha fatto pensare. Ora esce la notizia che Beyoncé, grazie a Texas Hold ‘Em, è la prima donna nera a raggiungere, al debutto, la prima posizione della Hot Country Songs, la classifica di Billboard dedicata, appunto, al country. Beyoncé, peraltro, è solo la seconda donna a riuscirci dopo Taylor Swift. Beyoncé, accompagnata da Jay-Z che, uscito piuttosto malconcio dalle liriche femministe di Lemonade, sta per tornare, nota di colore, e sta per tornare con il volume 2, di Renaissance, intitolato per l’occasione Renaissance Act II. Lo ha annunciato lei stessa al Super Bowl, difficile non farci caso. E lo ha fatto tirando fuori dal cilindro due brani, Texas Hold ‘Em, appunto, e 16 Carriages, brani che anticipano il tutto. Un album, e qui confesso che sono entrato in cortocircuito, nel quale Beyoncé affronta per la prima volta un repertorio country (nei fatti aveva già preso letteralmente di petto il genere in un brano di Lemonade, Daddy Lessons, ma quello sembrava un excursus, mentre stavolta si tratta di un progetto vero e proprio). Ora, associare il country al vecchio west è qualcosa che appartiene in parte alla nostra cultura periferica e provinciale, lo so, ma è indubbio che il genere nei fatti più ascoltato negli Usa abbia mosso i primi passi in quelle praterie e mondo contadino che del vecchio west rappresenta indubbiamente la parte preponderante, seppur meno epica e narrabile. Il termine country and western, del resto, non ce lo siamo mica inventati noi italiani, come non siamo noi a esserci inventati quell’immaginario di cappelli a larghe falde, gilet di pelle e stivaloni a punta, per le corna appiccicate sul cofano dei pick-up, che dire, c’è ancora un po’ da lavorare.
Associare quella che è, tecnicamente, la musica più ascoltata nel sud degli States, come in quella parte del midwest che viene indicato, sardonicamente, come White Trash che a occhio tutto sembra fuorché un luogo buono dove testare concetti quali inclusione e integrazione, il country, con una artista afroamericana che ha fatto del suo essere orgogliosamente afroamericana un punto di forza della propria poetica quanto del proprio immaginario, invece, è cosa assai più legittima di quanto non si possa pensare. Perché il country, genere che indubbiamente molto deve anche ai migranti provenienti dai paesi anglosassoni, su tutti l’Irlanda, fino agli anni Venti del secolo scorso era genere praticato indifferentemente sia da bianchi che da neri, senza nessuno tipo di differenza. Il country è comunque popolare, folk appunto, nato appoggiandosi ai fienili, a bordo dei campi coltivati, dove magari lavoravano anche gli schiavi. Quelli erano luoghi frequentati indubbiamente da chi migrare era migrato contro la propria volontà dalle terre d’Africa, la vicinanza col blues neanche troppo difficile da intuire, tutte musiche che sono partite dal basso per poi arrivare a scalare le classifiche di vendita, a schiavismo archiviato e integrazione parzialmente avvenuta. La stelle guitar, il dobro, il violino più tipiche del country che del blues, indubbiamente, genere che comunque ha negli strumenti a corda le proprie fondamenta, un senso del ritmo consistente, poco importa se per ballare gighe nell’aia o far ballare le sponde dei letti.
Negli anni venti, poi, ben lo racconta nei suoi concerti Rhiannon Giddens, al momento al fianco di Beyoncé nel suo nuovo progetto, vera star del country, afroamericana, mentre imbraccia un banjo, una chitarra, mentre suona il violino e canta, negli anni venti del Novecento il discografico e scout Ralph Peer se ne andò nei paesi del sud armato di registratore, un po’ meno intenzionato a mappare il territorio alla Alan Lomax o Ernesto De Martino, e si inventò il country come genere commerciale, un genere esclusivamente bianco, il primo brano a arrivare sul mercato The Little Old Log Canin in the Lane di Fiddin’ John Carson. Non la chiamò musica country, termine che arriverà solo dopo la Seconda guerra mondiale, ma Hillibilly Music, letteralmente musica per montanari, gli Appalachi come punto di riferimento, magari qualcuno di voi ricorderà il progetto post-Dire Straints di Mark Knopfler, The Nothing Hillibillies. In sostanza, con questa trovata, Peer creò due differenti mercati, quello hillibillie per i bianchi, il blues, il soul, il jazz per i neri. Un ragionamento da discografico, fatto a tavolino, che ha però contribuito a creare un falso storico, roba da suprematismo bianco. Lasciando che solo gli artisti bianchi potessero incidere musica riconducibile a questo genere, ovviamente, si è praticata una sorta di pulizia etnica, esagero, che ha portato alla cancellazione di una parte rilevante della storia, fino agli anni Venti metà dei musicisti che suonava quello che oggi viene chiamato country era nero. La stessa Carter Family, che a lungo è stata considerata l’eccellenza del country, si è a lungo avvalsa del talento di Lesley Riddle, musicista di colore che si prendeva il compito di trascrivere le canzoni che A.P. Carter andava scrivendo, senza saper però conoscere la musica. Un discorso che sembra non troppo distante da quello portato avanti a suo tempo dai Livin Colour di Vernon Reid e Corey Glover, a rivendicare come la paternità del rock fosse della comunità afroamericana, e che sembra aver trovato in Beyoncé la propria regina indiscussa. Sapere, lo sappiamo, del resto, che due delle più fulgide popstar mondiali, americane, ovviamene, Taylor Swift e prima ancora Miley Cyrus, figlia del campione Billy Ray, dal country sono approdate al pop, come sapere che oltre a Beyoncé al momento anche Nostra Signora del pop Lana Del Rey sta lavorando a un album che ruota intorno a questo genere chiude il cerchio, o almeno ne delinea i confini. Non ci resta che attendere ancora poche settimane, imparando nel mentre a lanciare ferri di cavallo o arrostire t-bone alla brace, per i più evoluti t-bone di tofu, la regina Beyoncé sta ritornando in sella a un cavallo di luce, non ce ne sarà per nessuno.