“Noi filippini, anche se in genere siamo bassi di statura, amiamo il basket. Nelle Filippine non c’è città, quartiere, paese che non ospiti un campo di basket. Anche i campi di basket qui di Milano sono spesso pieni di ragazzi filippini che giocano. Il basket è il nostro sport nazionale, come per voi lo è il calcio.” A dire queste parole, in realtà ne ha dette altre, ma che esprimevano i medesimi concetti, è stato un ragazzino della scuola secondaria di primo grado Santa Caterina, durante la festa di Intercultura che l’Istituto Comprensivo Stoppani insieme ad altre scuole ha organizzato a inizio ottobre. Una festa di inizio anno che è al tempo stesso la celebrazione di una vocazione all’inclusività e all’integrazione, pieno com’è di bambini e ragazzini che parlano lingue diverse, veicolando tradizioni e culture diverse, di bancarelle che propongono assaggi di cibi da ogni angolo del mondo, bandiere, canti e balli in pura “salsa world”. Il senso di questa festa, bellissima, è che siamo tutti diversi, e che in quanto diversi non possiamo che arricchirci reciprocamente delle nostre singole diversità. Un messaggio, certo, rivolto alle nuove generazioni, che così, a occhio, già lo hanno appreso in partenza, col crescere non possono che peggiorare. Torniamo però a parlare di basket, e di campetti affollati da ragazzini filippini che giocano a basket. Ce n’è uno nella strada che i miei figli piccoli, Francesco e Chiara, che di quel complesso frequentano la seconda media, percorrono quotidianamente, andando a scuola e tornando poi a casa, in piazza Aspromonte. Un campo nuovo, da poco tirato a lucido, in un parco che include anche un paio di spazi coi giochi per bambini, panchine varie e tanti alberi, il tutto in una piazza che presenta qualche sporadico negozio, una gelateria, un ristorante cinese, una sede di Forza Nuova - quasi sempre chiusa, addirittura mio figlio piccolo, quando era piccolo piccolo, pensava fosse un barbiere a causa dei tizi coi capelli rasati che lo frequentavano - e la sede di una casa editrice per cui ho a lungo lavorato in passato, la Quadratum, quella che ha portato in Italia il marchio Rolling Stone, poi migrato altrove, e che un tempo pubblicava Viaggi e Sapori (oggi credo che porti avanti solo le sue due testate storiche, Cucina Italiana e Intimità). Ai suoi margini, lo dico perché mi capita spesso di passarci a piedi andando verso il centro, quindi incamminandomi verso Corso Buenos Aires, tutto un popolo di senza fissa dimora che qui ha preso alloggio, i carrelli della spesa ricolmi di quello che per loro è ognibene, qualche busta della spesa, di quelle grandi, che paghi una volta e poi conservi per la spesa dopo, carica di chissà cosa. Succede in diverse piazze di Milano, credo, mi è capitato di vedere situazioni simili a Largo Marinai di Italia, nei pressi del Parco Ravizza, nel piazzale che si trova su viale Marche, all’altezza di quella che un tempo era la sede di TV2000 e Avvenire, la frequentavo quando trasmettevo per Radio InBlu, dove si vedono giacigli di emergenza, tende di Decathlon convertite a case, amache, beni per loro primari raccolti in mucchi disordinati. Situazione solo in apparenza simile a quella che si vede andando verso il Politecnico, non troppo lontano da qui, solo che in quel caso le tende sono degli studenti fuorisede, forma di protesta situazionista atta a sottolineare come i prezzi degli affitti in zona, dove per zona non è solo Città Studi ma un po’ tutta Milano, sia assolutamente fuori controllo.
Qui si parla di gente che la società ha in qualche modo messo agli angoli, emarginato. Certo, ci sarà anche chi ha deciso di starci, in quegli angoli, quando facevo l’obiettore in un dormitorio mi è capitato più volte di interfacciarmi con chi di stare dentro la società non voleva proprio saperne, per una propria visione del mondo o magari per una questione di disagio anche mentale, ma nella più parte dei casi si trova a vivere una condizione di ban, usiamo un termine virtuale per descrivere qualcosa che è assolutamente reale e contemporaneo. Vedere genitori coi bambini, al parco coi giochi, ragazzotti che giocano a basket e lì, a pochi passi, questi diseredati dalla Terra, per dirla con Franz Fanon, genera uno scollamento, una frizione, qualcosa che solo un insensibile potrebbe identificare come un rumore di fondo. Torniamo però a parlare di basket, e di campetti affollati da ragazzini filippini che giocano a basket. Non è neanche vero che siano poi così bassi, come il ragazzino ci ha detto. Cioè, è vero che tendenzialmente gli adulti filippini che siamo soliti incontrare, penso ai genitori di quei ragazzini e bambini, in tutte le classe dei miei figli ci sono stati compagni di origini filippine, alcuni ce ne sono ancora oggi, anche se va detto che nel caso dei miei figli il tutto si è fermato alle scuole secondarie di primo grado, cioè alle medie, come se i licei fossero poco ambiti dai migranti di seconda generazione, penso ai tanti uomini e donne che incontro nel quartiere, generalmente impegnati in lavori da colf o badanti, conosco famiglie che ricorrono a loro, ma i ragazzi, e so di usare un maschile patriarcale che infastidirà un po’ tutti, ma lo schwa non la trovo nella tastiera, perdonatemi, sono tendenzialmente alti, come del resto sono alti i ragazzi e le ragazze italiane, ben più di noi genitori. Forse effetto di una alimentazione geneticamente modificata, chissà, o delle scie chimiche, chi potrebbe escluderlo. Quelli che frequentano il campo da basket di Piazza Aspromonte, infatti, sono tutti alti, e anche grossi, e giocano bene a basket, li vedo spesso prodigarsi in tiri da tre del tutto funzionali all’apparire fighi, inutili al gioco in sé per sé, quindi, pura estetica. Ai miei tempi, dove sono nato e cresciuto, in Ancona, campi da basket non ce n’erano, neanche in quelli che per un po’ abbiamo chiamato i “quartieri nuovi”, oggi puro modernariato. C’erano campi da calcio, parecchi, quasi tutti in erba e sabbia, penso a quello del Pincio, a quello della Lunetta, a quello del Maneggio, a volte anche in asfalto, quelli di San Domenico, di San Francesco, del Sacro Cuore, e in ogni campo c’erano ventidue piccoletti che giocavano a calcio, più un numero imprecisato che sperava che qualcuno si facesse male o dovesse andarsene per impegni di famiglia, così da poter subentrare. A regolare gli accessi due principi sempre validi, la bravura e l’età. Se eri oggettivamente forte avresti sempre giocato, lo sapevano tutti e nessuno aveva niente da ridire, e se eri più vecchio pure, con buona pace delle nuove leve o delle nuove leve che non avessero i piedi particolarmente buoni. Ma niente campi di basket. A un certo punto hanno provato, con grande fantasia, a convincerci tutti a giocare a baseball, erano i primi anni Ottanta, e il successo di una squadra come il Riccadonna Rimini pensavano avrebbe fatto da volano, ma il baseball è uno sport complicato, molto razionale e soprattutto senza una adeguata copertura televisiva, specie ai tempi, il calcio era democratico e alla portata di tutti, bastavano un pallone, anche di quelli da poche lire come il SuperTele, e qualche maglione per fare le porte, pronti via.
Per la cronaca io a baseball ci ho pure giocato, per due anni, una buona interbase con la battuta sempre pronta (lo so, è una battuta scarsa, ma tant’è), ma il calcio è il calcio, al limite avrei preferito giocare a basket, se proprio mi fosse stato impedito di usare i piedi. Torniamo però a parlare di basket, e di campetti affollati da ragazzini filippini che giocano a basket. Ce ne sono, appunto, cosa che invece non si può dire riguardo al calcio, ormai relegato alle scuole e quindi alle squadre vere e proprie, scomparso del tutto da quei luoghi pubblici dove appunto bastava ritrovarsi un tempo con una palla da quattro soldi e tanta voglia di giocare. Le squadre, per altro, proprio quest’anno hanno vissuto il caso, inizialmente confuso per vero e proprio dramma di un cambio di un cambio delle regole di iscrizione per i giovani extracomunitari, in apparenza un cambio di rotta violento e decisamente retrogrado da parte della Figc. Si pensava, infatti, che lo Ius Soli sportivo, attivo dal 2016, fosse stato revocato, questo era stato l’allarme lanciato dal Resto del Carlino a inizio stagione in seguito alle lamentele di una squadra in provincia di Reggio Emilia, l’Aurora, che aveva visto otto suoi giovanissimi impossibilitati a iscriversi. In realtà si era trattato di mero intoppo burocratico, le nuove regole comunicate troppo a ridosso dell’inizio dei campionati, col risultato che quello Ius Soli nei fatti mantenuto è come se fosse stato abolito de facto, i timori di un atteggiamento volto a assecondare gli umori anti-immigrati del governo di destra lì, a far paura un po’ a tutti. Grazie allo Ius Soli Sportivo, infatti, a differenza di quanto non succeda con la cittadinanza, da noi lo Ius Soli non esiste, bambini e ragazzini ancora senza cittadinanza italiana possono essere inclusi nelle squadre giovanili, a vario grado, in attesa di diventare poi a tutti gli effetti cittadini italiani una volta raggiunta la maggiore età. Almeno sui campi di calcio, burocrazia permettendo, non trattati come stranieri, loro che spesso sono nati in Italia, studiano in Italia, parlano italiano ma italiani non sono. Dio non voglia che anche questo diritto venga in effetti meno, perché alla negazione di tanti diritti, verrebbe aggiunta una nuova beffa, con tutte le ripercussioni del caso. Attraverso l’attività sportiva, che tende da una parte a creare socialità dall’altra a tenere i suddetti giovanissimi lontani da pericoli e guai, molto si è fatto per quell’integrazione che fatica in altri aspetti del sociale a farsi largo. Certo, in assenza della reale possibilità di iscriversi alle scuole calcio e nelle squadre di calcio resterebbe sempre la vecchia usanza di andare a giocare nei campi che si trovano in quasi tutte le nostre città e paesi, o in loro assenza magari creandone di nuovi alla vecchia maniera, due maglioni in terra per parte a fare le porte, a riprova che se anche le istituzioni di democratico hanno poco o nulla, lo sport è davvero capace di abbattere tutte le barriere, anche quelle che si alzano dentro le teste dei governanti. Così fosse magari l’anno prossimo, alla Festa di Intercultura dell’Istituto Comprensivo Stoppani ci potrebbe essere un ragazzino o una ragazzina di una qualsiasi parte del mondo che non sia l’Italia o l’Unione Europea che ci racconterà di come, nonostante tutto, il calcio sia il suo sport preferito, magari anche quello più praticato nella sua nazione, esattamente come da noi, un ragazzino o una ragazzina che ci dirà poi: “Anche i campi di calcio nei parchi di Milano sono pieni di noi, lasciati fuori dalle società sportive, a fianco a quelli dove i filippini giocano a basket”. Così sia.