In un’intervista al Messaggero, ripresa anche da Dagospia, Edoardo Leo ha dichiarato di aver preso 22 chili per interpretare Jago nel film, Non sono quello che sono, già presentato il 6 agosto al Festival di Locarno. L’opera diretta dallo stesso Leo è una nuova versione dell’Otello di William Shakespeare, in cui i protagonisti sono i malavitosi di Ostia. Un dramma scespiriano tradotto in romanesco, dunque. Ad ogni modo, chiarisce Leo: “Prendere 22 chili è stato bellissimo. Ho mangiato pasta a pranzo e cena tutti i giorni”. Se la tematica prende la rincorsa da un’opera universale per ritornare in casa nostra, parlando dell’oggi, il metodo usato dall’attore romano per prepararsi al ruolo è usato molto più negli Stati Uniti che dalle nostre parti. Certo, non è il primo caso italiano di body transformation: Pierfrancesco Favino nel film Senza nessuna pietà ingrassò fino a raggiungere i 100 chili di peso. Anche Stefano Accorsi modificò il proprio corpo in vista del suo ruolo in Veloce come il vento, dove interpretava la parte di Loris, un ex pilota e tossicodipendente: in quel caso, l’attore perse circa 12 chili. Ma i casi italiani sono più un’eccezione che una prassi. Niente a che vedere, comunque, con la diffusione della pratica in America. Tra i massimi esperti in materia c’è senza dubbio Christian Bale, che nel corso degli anni ha sballottato il suo corpo da un estremo all’altro della bilancia. In L’uomo senza sonno era arrivato a pesare solo 54 chili, mentre per American Hustle oltrepassò di 20 chili il proprio peso forma. Senza contare gli sforzi per mettere su i muscoli necessari a interpretare Bruce Wayne in Batman Begins, Il cavaliere oscuro e Il cavaliere oscuro – Il ritorno, la trilogia diretta da Christopher Nolan. Ma sono passati alla storia anche i casi di Robert De Niro, che per impersonare Jake La Motta in Toro scatenato prese 30 chili, e di Jared Leto che dimagrì 18 chili per recitare in Dallas Buyers Club a fianco di Matthew McConaughey, anche lui ridotto di 17 chili. Edoardo Leo, quindi, si inserisce in una strada già aperta dal cinema d’oltreoceano. L’attore ha chiarito: “Volevo liberarmi dell’immagine del bel ragazzo con le spalle larghe che fa le foto glamour con lo smoking. Volevo disintegrarla”. Una volontà di staccarsi da ciò che fino a ora Leo ha rappresentato: un attore simpatico al grande pubblico, ma intrappolato “nel recinto dorato delle commedie”. Il progetto di portare in scena Shakespeare, comunque, viene da lontano: “Una sfida enorme, che ho in mente da quindici anni. Volevo che fosse il mio esordio da regista, ma per fortuna nessuno me l’ha fatto fare: sarebbe stato troppo”. Quando il film arriverà in sala, capiremo se l’operazione di Leo ha funzionato.
Da tempo, invece, è uscita e si è conclusa la serie Diavoli, tratta dai romanzi di Guido Maria Brera, in cui Alessandro Borghi recitava a fianco di Patrick Dempsey. L’intero copione era scritto in inglese, ma Borghi si dimostrò all’altezza. Un italiano a Londra che, a differenza di Adam Driver in Ferrari, impersonava un personaggio italiano. Ha fatto discutere durante l’ultimo Festival di Venezia la posizione assunta da Pierfrancesco Favino, perplesso rispetto alla decisione della produzione del film di far interpretare una storia italiana a un cast americano. Recentemente si è espresso sul tema anche Carlo Verdone, che non si è sopreso della scelta di Michael Mann. L’attore romano, però, non ha approfondito, evitando il prolungarsi delle polemiche. Ma non sono forse, quello di Leo e la scelta di Borghi, due tentativi di dare respiro internazionale agli attori italiani? Non è, ribaltando la questione posta da Favino, un’apertura al cinema che esiste al di fuori dei nostri confini? Ovviamente, gli interpreti italiani non sono immuni dalle influenze dell’industria più potente e influente a livello mondiale (quella americana, appunto).
Non si tratta, però, di un’assimilazione passiva di un metodo esterno alla cultura della recitazione italiana. Per usare le parole di Borghi, intervistato più di un anno fa da Icon, quella della lingua era più che altro una sfida dettata dalla curiosità: “La mia è stata voglia di scoperta. Sono sempre stato curioso di capire quali fossero i limiti che potevo avere”. Anche perché, come sottolinea nella stessa intervista, il mito americano era già crollato: “Se dovessi scegliere non andrei a Los Angeles, semmai a Bali”. I nostri attori sembrano ben consapevoli di non poter rimanere inermi di fronte ai cambiamenti dell’industria, alla necessità delle produzioni italiane di allargare i loro orizzonti, proiettandosi in una dimensione sempre più internazionale. Lo fanno, però, per delle ragioni che si svincolano dalla dipendenza culturale nei confronti del cinema statunitense. Quella che li muove è la volontà di fare qualcosa di diverso. Una sfida nuova. Niente affatto piegati alle dinamiche di un America che il pensiero comune vuole sempre migliore, più bella e più brava. Consci sia del cambiamento che del proprio valore. Ed è giusto così.