Gli anni Settanta sono un periodo storico ancora non completamente digerito. Le piazze piene, le grandi questioni internazionali, la contrapposizione tra i due blocchi. La violenza per le strade. C’erano però dei grandi leader a guidare i partiti e i popoli. Enrico Berlinguer era il gigante della sinistra. Berlinguer – La grande ambizione è stato il film di apertura della Festa del cinema di Roma 2024. Una scelta che, forse, va oltre il cinema stesso. Abbiamo intervistato Francesco Acquaroli, che interpreta Pietro Ingrao nel film, “l’orecchio del Partito Comunista” sul mondo giovanile. La conversazione è scivolata inevitabilmente verso la politica: “La deriva capitalistica a cui stiamo assistendo ci sta praticamente isolando. Adesso siamo tutti cani sciolti”. E la “grande ambizione” contenuta nel titolo? “È stata raccolta sia da Berlinguer che da Aldo Moro, ma è scritta nella nostra Costituzione”. Eppure, “c'è una parte d'Italia che non si riconosceva e non si riconosce tutt’ora pienamente in essa”. Poi le nuove sfide della tecnologia, l’accentramento di potere nelle mani di persone come Elon Musk e Mark Zuckerberg (“Mi spaventa molto. Dei geni così sono una variabile imprevista”), la diversità tra i tipi di violenza e una certezza: “Indignarsi non basta”.
Francesco Acquaroli, partiamo con una possibile problematica relativa al portare Berlinguer al cinema: non si rischia di trasformarlo in una bandierina da sventolare all’occorrenza?
Credo sia un atteggiamento che non appartiene a chi il film l’ha fatto, al massimo potrebbe riguardare alcuni degli spettatori, ma sinceramente non penso che ciò accadrà. Quella rappresentata è una storia d'Italia che mancava sugli schermi, non è stata mai raccontata e riguarda un mondo che adesso si è completamente sciolto, ma in cui c’era il senso di un futuro da costruire insieme. Nel film si vedono molti spezzoni di documentari che Jacopo Quadri, il montatore, con Andrea Segre hanno costruito in maniera eccellente: sono frammenti che si innestano nel racconto e che mettono in risalto questa partecipazione numerosissima, le piazze stracolme, cose che adesso non accadono più. Per vedere tutta quella gente, specie tra i giovani, occorre andare a un concerto.
Questo cosa ci dice?
Che nonostante la diversità delle idee c’era la prospettiva di un cammino che si poteva fare solo insieme. Adesso siamo tutti diventati cani sciolti. Viviamo un momento storico importante e questo dobbiamo capirlo, non rifiutarlo. Dobbiamo capire che cosa ci sta succedendo. Quel senso di collettività che il film trasmette non rende Berlinguer una “bandierina”, non è semplicemente un modo di guardarsi indietro per celebrare il passato. Ripeto: questa è una postura sbagliata che potrebbe appartenere a chi guarda, non a chi ha pensato il film.
Nel titolo c'è anche “la grande ambizione”, concetto essenziale per il pensiero politico di sinistra: la classe politica di oggi manca di questo elemento?
La grande ambizione è stata raccolta sia da Berlinguer che da Aldo Moro, in maniera opposta ovviamente. Ma la grande ambizione, in realtà, sta dentro la nostra Costituzione, scritta dalla generazione precedente a quella dei leader dell’epoca. Serve anche ricordare che la Costituzione non è stata accettata da tutti. Anzi, forse c'è una parte d'Italia che non si riconosceva e non si riconosce tutt’ora pienamente in essa. Non direi che questa ambizione si è persa, perché tutti aspiriamo a stare bene, indipendentemente dall’appartenenza politica. Sono cambiati i modelli di riferimento e probabilmente abbiamo preso quelli sbagliati: questo è il dramma. Quando ce ne accorgeremo sarà difficile recuperare il senso della collettività. Stare da soli non è mai la scelta giusta.
I riferimenti di cui parli sono politici?
Noi siamo animali politici e qualsiasi cambiamento antropologico ha ripercussioni politiche. Tutto è altamente connesso. Se noi adesso diamo importanza al fatto che io come singolo individuo devo avere successo e non mi metto in una prospettiva collettiva, allora sono solo. Poi magari c'è chi riesce a ottenere ciò che voleva, ma che senso ha stare bene ed essere circondati da persone che stanno male. Abbiamo esempi di società che sono andate in quella direzione e si sono perse. Ci sono persone ricchissime che vivono in una fortezza e che percepiscono il pericolo che sta fuori, perché sanno che ci sono persone a cui manca tutto, e che giustamente vogliono appropriarsi di ciò che non hanno. Lo sappiamo che quella prospettiva è letale.
Gli anni in cui il film è ambientato sono tra i più violenti della storia del nostro Paese: oggi vedi ancora quel tipo di violenza, oppure è cambiato qualcosa?
Parlando un po’ cinicamente mi viene da dire che le violenze che si stanno esprimendo in questo periodo sono tutte azioni individuali. Anche in quello manca il riferimento agli altri. Certo che prima c'era violenza, ce n’era tantissima. Quando ho cominciato a interessarmi di politica avevo 15 anni, era il 1977, l'anno più brutto dal punto di vista della violenza politica. Quella però era calata all’interno di una prospettiva diversa, una contrapposizione sicuramente dura, in cui due modi opposti di pensare il futuro si combattevano per strada. Però non succedevano le cose che accadono adesso, ragazzi che uccidono per motivi che non hanno senso. Quelli sono gesti che denunciano lo stato di abbandono a noi stessi che stiamo vivendo.
Torna il discorso dei “cattivi esempi”.
La svolta è stata senza dubbio l’avanzamento di leader come Ronald Reagan e Margaret Thatcher e il contemporaneo tracollo del comunismo sovietico. La sconfitta di quest’ultimo ha cancellato tutto quello che c'era di buono nell'ideale collettivo. Da quel momento in poi si è sbilanciata ogni cosa politicamente. La deriva capitalistica a cui stiamo assistendo ci sta praticamente isolando.
Che fare, chiederebbe qualcuno.
Bisogna sempre guardare la realtà con attenzione e capire come reagire. Non però rimuovendo quelle parti della storia che non ci piacciono. Il socialismo nella sua più alta espressione politica, che è stato il soviet russo, è stato un fallimento totale, ha rinnegato i propri ideali.
Berlinguer questo lo aveva capito, giusto?
Certo che sì, e con grande anticipo. Aveva capito che le libertà o sono assicurate tutte oppure non ce n’è nessuna. E se non c'è libertà non può esserci neanche il socialismo.
Il tuo personaggio è Pietro Ingrao: è una figura che hai riscoperto partecipando a questo progetto?
Non direi che l’ho riscoperto, perché comunque me lo porto dentro da quando mi interesso di politica. Lui era l'orecchio del Partito Comunista ed era appoggiato soprattutto dai movimenti giovanili. Riusciva a contenere l'insoddisfazione dei giovani rispetto, per esempio, alla scelta che fece Berlinguer di abbandonare il comunismo sovietico per cercare una via nuova, completamente inaspettata. E questi malumori giovanili venivano accolti ed elaborati per quanto possibile da Pietro Ingrao. Io sono grato a Andrea Segre per avermi affidato questo ruolo.
Tra gli ultimi libri di Ingrao c’è un titolo: Indignarsi non basta. Questa esortazione è valida ancora oggi?
Assolutamente sì, indignarsi non basta, bisogna fare proposte, reagire, combattere, affermare le proprie istanze. Poi naturalmente il mondo è cambiato talmente tanto che faccio anche fatica a pensare a formule efficaci. Quest’epoca digitale vede quelli della mia generazione un po’ claudicanti, ma gli strumenti possono essere positivi o negativi per l’uso che ne facciamo. Adesso c'è la grande incognita dell'intelligenza artificiale.
Tu cosa ne pensi?
La cosa che mi spaventa molto non è tanto la tecnologia, quanto il fatto che ci siano delle persone dotatissime, faccio un nome, Elon Musk, che hanno enormi risorse dal punto di vista tecnologico, dell’innovazione, e accumulano ricchezze tali per cui, da soli, raggiungono il peso politico di un’intera nazione. Magari Musk fuori dal suo ambiente è un pazzo scriteriato. Reputo questo un pericolo concreto, cioè che delle persone che sanno interpretare le nuove tecnologie possano diventare forti come lo Stato. È un nuovo feudalesimo, non saprei come altro definirlo. Penso che i giovani debbano cogliere questo aspetto e trovare delle contromisure. I grandi geni, come anche Mark Zuckerberg, sono variabili impreviste fino a poco tempo fa.
Le forme di aggregazione digitali secondo te non sono forti abbastanza da arginare questi cambiamenti?
Me lo auguro, però serve sempre un impianto giuridico che regoli questo nuovo mondo. Quindi bisogna che la spinta sia così forte da costringere i paesi che a darsi una rete giuridica attraverso cui interpretare quello che succede. Non vedo altra uscita.
Tornando al film: c’è una cosa che viene messa in scena e che secondo te mancava nella rappresentazione di Berlinguer?
Segre ha scelto pochi anni della sua vita. Giustamente secondo me, anche perché era un periodo talmente denso che difficilmente poteva essere compresso in un film. Lui ha raccontato praticamente tutto il 1977, l’anno della rivolta giovanile. E lo ha fatto mettendo Berlinguer dentro casa, a pranzo con i suoi figli, evidenziando il rapporto amorevole che c’era tra di loro. Forse questo aspetto intimo completa la grande figura politica. Lui ha fatto qualcosa di mai visto, il 30% dell'elettorato italiano votava un comunista. Per un Paese occidentale è una cosa di una potenza che adesso forse ci sfugge, ma che rendeva l'Italia un Paese allarmante, per certi versi, sia in relazione al blocco occidentale, sia rispetto a quello orientale. Su di lui pesavano delle responsabilità che non riesco neanche a immaginare. Vederlo come un padre amorevole che spiega con dolcezza ai suoi figli quello che sta accadendo ci aiuta a chiudere il quadro su una figura importantissima dello scenario politico italiano.
Berlinguer aveva un’enorme forza comunicativa, come traspare dal film, ma c’era un pensiero politico profondo dietro. Oggi vedi qualcuno in grado di conciliare questi due elementi?
Bisogna fare attenzione: la forza comunicativa è sempre stata necessaria ai politici. Un leader politico deve saper comunicare, la forza retorica è fondamentale. Poi che dietro alla robustezza della comunicazione ci sia anche sostanza è successo poche volte nella storia. C'è un film bellissimo che parla di Napoleone, un gigante della storia, che però nella comunicazione era un disastro. E si vede il fratello minore, intelligentissimo, che in una scena lo prende e lo porta via. Che la comunicazione non vada sempre di pari passo con la sostanza della figura politica non è niente di nuovo.