Che impegno l’amore. Serve studiare, essere pronti alle delusioni, ai fallimenti. Insomma, servono ripetizioni. Angelo Mellone ha deciso di rimettersi al lavoro su questo tema. Per Chora Media ha scritto un podcast (Ripetizioni d’amore, appunto) pensato sulla base di uno spettacolo teatrale che lo stesso Mellone porterà in scena. Tra i conflitti generazionali (l’amore per i figli, ci dice, è più forte di quello romantico), la barriera dei social e la moltiplicazione delle etichette (ghosting, gaslighting, zombing e così via): a che punto siamo? L’intervista completa.
Angelo Mellone, rimettersi a studiare significa sedersi su uno sgabello scomodo, come ha detto nel podcast: ecco, quanto è stato scomodo?
Parecchio, perché parlare d’amore significa chiamare in causa il conscio, il subconscio e l'inconscio, tutte le dimensioni dell’essere umano. Non serve essere freudiani. Questo podcast anzitutto è rivolto ai miei coetanei, ai cinquantenni, ed è tratto dall'idea dello spettacolo teatrale che sto mettendo in piedi. Nello spettacolo voglio fare dal vivo quello che faccio nel podcast, cioè fermarmi e dire guardate, il tema dell'amore è decisivo nel mondo contemporaneo.
Come mai?
È accaduto qualcosa, cioè l'amore che prima non era mai stato un problema, sì magari un problema letterario o poetico, ora riguarda le vite di milioni di persone. Parlo anche del rapporto fra generazioni, per chi ha figli ma non solo. A Matera stavo raccontando del progetto ed è arrivato un ragazzo, aveva 25-26 anni, e mi ha ringraziato. Ho cercato di raccontare l’amore in chiave pop, divulgativa, rispettando la scienza e la letteratura.
Che cosa accade nel cervello quando ci innamoriamo?
Innanzitutto non dobbiamo confondere innamoramento e amore. Lo dico ai miei coetanei, ma anche ai miei figli. Il cervello sempre quello è. La riflessione su questa nevrosi dell'eterno presente dei social o della messaggistica vale per tutti. Anche in amore soffriamo della sindrome della spunta blu. Se ti scrivo un messaggio e tu non mi rispondi inizio ad andare in ansia. Se non mi hai risposto due ore dopo la storia è già finita, quattro ore dopo mi hai tradito con un altro.
Nel podcast parla della moltiplicazione delle etichette, però dare un nome alle cose è il primo passo per capirle.
È un primo passo per controllarle. Prendiamo per esempio il ghosting: in realtà c’è sempre stato, solo che per la mia generazione era molto più facile sparire. Lo zombing, il fatto di riapparire dopo tanto tempo in seguito a una separazione, è un classico della letteratura. Dietro questa manìa di etichettare anche i minimi comportamenti c'è un'ossessione del controllo, il desiderio irrefrenabile di tenere tutto quanto a bada per paura di soffrire. Percepisco grande timore del mistero, dell'ignoto, che sono tutte categorie filosofiche legate ai rapporti d'amore.
Parla anche di scienza e del funzionamento del “cervello innamorato”.
Ad animare il cervello sono la dopamina, la noradrenalina, l'endorfina, la vasopressina, l'ossitocina. Gli ormoni. Sono cose che non possiamo controllare del tutto. L'amore contiene la verità del rischio, del sacrificio. E c’è anche la possibilità di fallire, di soffrire, di uscirne devastati e di risorgere. È un investimento emotivo importante e un atto di volontà fondamentale.
Nei rapporti virtuali questo investimento come cambia?
Se tu escludi i corpi e virtualizzi il rapporto rendi tutto più controllabile. E ciò implica una insicurezza di fondo. Se mettiamo un'etichetta per tutti i comportamenti lo facciamo per condividere quelle esperienze con altre persone, ma sono cose che già esistevano. La mia generazione non sentiva questo bisogno.
Come mai?
Le etichette erano sostituite dalla letteratura, dalla poesia, da ciò che si raccontava nei grandi romanzi, nei film, nelle canzoni dei cantautori.
I sentimenti ci sono sempre stati, è evidente, ma le dinamiche non sono le stesse.
Certo, ci sono variabili tecnologiche. Il controllo oggi è tendenzialmente più semplice. Ritengo che la nostra adolescenza e i nostri vent'anni siano stati, da un punto di vista delle relazioni, molto più sereni. Noi eravamo instradati naturalmente su una strada definita: fidanzamento, convivenza, i figli e la costruzione di una famiglia. Era un mondo più semplice e a suo modo più ordinato, non per forza migliore.
Ci sono diverse generazioni su quelle app, non solo i più giovani.
Quelli della mia età che le usano mi fanno tenerezza e, a dire la verità, anche un po’ pena.
Perché?
Mi sembra di sfogliare un catalogo in cui c’è solo l’illusione della scelta, dato che è l’algoritmo che ti propone quelle opzioni. La discriminante è quella dell'esteriorità. Non mi appassiona per niente, per me significa togliere quel senso del caso che rende gli incontri interessanti. Mettere like, mandare un messaggio e pretendere subito una risposta è una soddisfazione istantanea. In passato c’era l’attesa, le lettere, la possibilità di vedere l’altra persona in vacanza dopo mesi. La dilatazione del tempo aumentava la fantasia e il desiderio.
Le cose che nascono su un’applicazione però proseguono nel mondo reale.
Secondo me i rapporti sentimentali che acquisiscono forza sono quelli che si spogliano di questa parete tecnologica. Io ho avuto due storie importanti prima dei 50 anni, poi ho detto basta, ho chiuso con l'amore. Invece con la mia attuale compagna, che per quanto mi riguarda è l'amore trovato ai 50, ho fatto un salto di livello, ma non perché lo abbia deciso. Nel momento in cui razionalmente ho scelto di tracciare una riga è arrivato di nuovo quel sentimento. Una delle studiose che ho interpellato di più, Donatella Marazziti, dice che noi possiamo scegliere di fare qualsiasi cosa: smettere di fumare, di bere, di giocare a tennis, di suonare il pianoforte. L'unica cosa che non possiamo decidere è smettere di amare.
I suoi figli più grandi cosa le hanno detto quando ha presentato loro questo progetto?
Mi hanno guardato un po' così, perché il sottinteso era: ma proprio tu? Ma che esempio sei? Che cos'hai da insegnarmi? In questo percorso però ho imparato una cosa che non sapevo, e cioè che l'unico esperimento che è stato fatto per mettere a paragone le reazioni del cervello ai vari tipi di amore, mostra alla scienza che quello per i figli è il più forte di tutti, ancora maggiore rispetto all'amore romantico. Noi abbiamo la parola vedovo, la parola orfano, ma non esiste in nessuna lingua al mondo un termine che designi il contrario: un genitore che perde un figlio. Non c'è. Perché il lavoro da fare è più forte, quindi anche il dolore.